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Domenico Marcolin nasce il 18 settembre 1926 a Valrovina. La storia che racconta accade quando Domenico ha appena sette anni.
A quel tempo a Valrovina si coltivava il tabacco, questa pratica era quasi la sola fonte di sostentamento. La coltivazione e la vendita del tabacco erano severamente controllate dallo Stato, che se ne era riservato il monopolio; verificatori e guardie di finanza provvedevano a sorvegliare le coltivazioni.
La capitale del tabacco era Campese, insieme a Solagna. Una volta l’anno i coltivatori portavano il tabacco ai magazzini, ma ricevevano una miseria.
Domenico Marcolin, ottobre 2009
In questo scenario, il contrabbando aiutava a vivere meno poveramente, era una necessità e permetteva alla gente di ricavare un minimo di sussistenza.
Giovanni, papà di Domenico, portava a Rubbio la frutta, dove non cresceva per via delle temperature rigide, a piedi col bigolo e le ceste. Soldi non ce n’erano e si usava il baratto. In cambio di peretti, pometti e fighi riceveva uova, che poi portava a Bassano per rivenderle. Quando le uova non c’erano, Giovanni la frutta la portava lo stesso e quando si poteva si pareggiava il conto. A casa vivevano la moglie Maria Manera, nove figli e i genitori anziani.
Qualcuno ordinava anche il tabacco per fare le sigarette.
Domenico era bambino. Il papà Giovanni camminava avanti con la frutta, lui seguiva per precauzione qualche centinaio di metri dietro. Sopra erano sistemati i broccoli; sotto, nascosto, il tabacco (quello in foglia per fare le sigarette, diverso da quello da naso).
Era una fredda mattina d’inverno e c’era tanta neve. A tratti era tanto alta che si scavavano le gallerie e il mattino per andare a scuola si percorrevano questi corridoi per chilometri.
Era il 1933. Giovanni e Domenico erano partiti da casa verso le 8, salivano lungo la Via Nova (da Col Alto fino a Forcella), al tempo la via principale.
Intorno alle 10:30, Domenico aveva raggiunto i Gritti quando lo sorpresero due agenti in borghese della Guardia di Finanza. Avevano scavato una nicchia nella neve e vi si erano accucciati nascosti. “Quanta paura avevo!” racconta, pescando dal bacino della memoria quelle emozioni.
Lo presero in malomodo, poi in cammino uno avanti e uno dietro per paura che scappasse, fino a Rubbio e poi Rubbietto giù per la mulattiera che portava a Fontanelle, dove c’era la caserma. Domenico ricorda ancora il rumore del catenaccio del portone “come se si aprisse la porta per l’inferno”. Le guardie lo rinchiusero in una cella, la neve copriva le piccole finestre con le inferriate grosse come a impedire la fuga di animali feroci.
Era freddo e si stava come in una ghiacciaia. Intanto, fuori dalla cella, le guardie mangiavano.
Solo più tardi un vecchietto (probabilmente il cuoco) gli portò qualcosa da mettere nello stomaco dicendogli: “no’ sta aver paura putèo”.
Dopo, ebbe inizio l’interrogatorio. Gli agenti volevano sapere chi aveva consegnato a Domenico il tabacco, da dove arrivava e come. Ma l’ordine era tacere.
Allora due agenti in divisa lo portarono via, sulla strada lungo il cimitero verso la Scaletta, nel tentativo di far uscire allo scoperto Giovanni. Appena fuori del paese, gli misero le manette (quelle con la vite) per impedirgli ogni tentativo di fuga. Con le mani legate dietro la schiena, arrivarono alle Spelonchette e a Rubbio, ma senza successo. Quando rientrarono in caserma, vi trovarono Giovanni venuto a cercare il figlio.
Domenico era al centro della stanza; Giovanni contro il muro, in modo da non poter intendersi con il bambino e riconoscere in viso chi l’interrogava. Qui il ricordo si fa crudo e l'indole mite di Domenico lascia trapelare un'ombra di rancore.
Lasciarono la caserma solo intorno alle 23.
Allora Giovanni accompagnò Domenico alla trattoria del paese e gli fece portare una zuppa con le trippe e un bicchiere di aranciata. Quindi si misero in cammino verso casa. A tratti Giovanni lo prendeva sulla schiena, allora Domenico si addormentava sfinito, infine giunsero a casa quando si era fatto giorno. La mamma Maria e la zia Cesira, che nel frattempo erano andate a cercarli, rincasarono due ore dopo.
Giovanni fu condannato a pagare una multa di 350 lire, una somma impossibile da onorare a quei tempi. Chiese ed ottenne la grazia, in virtù del fatto che doveva mantenere una famiglia numerosa.
E' questo un ricordo vecchio 76 anni capace di rievocare nel nostro narratore tutta la paura e la sofferenza di questa brutta vicenda.
Una vita, quella di Domenico, altrimenti ricca d’affetti, 59 anni trascorsi insieme a Livia, quattro figli, nipoti e tanti altri ricordi da raccontare col sorriso sulle labbra.
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