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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Alessandro TichAlessandro Tich
Direttore Responsabile
Bassanonet.it

Il "Tich" nervoso

Potenti mezzi

A proposito della proposta di legge del senatore leghista Manfredi Potenti che vieta l’uso della parola “sindaca” e di altri termini al femminile negli atti pubblici, con sanzioni pecuniarie fino a 5000 euro

Pubblicato il 22-07-2024
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Brassaï. L’occhio di Parigi

Lo confesso, lo ammetto, faccio outing.
Nei cinque anni in cui Elena Pavan ha ricoperto il ruolo di primo cittadino (o prima cittadina?) di Bassano del Grappa, anch’io ho scritto più volte la parola “sindaca”.
Non ho mai usato il termine declinato al femminile come prima scelta, ma a forza di scrivere articoli su articoli sulla Pavan ogni tanto mi veniva naturale utilizzare la variante con la “a” finale, senza avvertire alcuna connotazione politica o ideologica in tale scelta lessicale, al di là della sua incontestabile correttezza grammaticale.

L’ex sindaca Elena Pavan all’ultima cerimonia di San Bassiano (archivio Bassanonet)

Sono tuttavia ben cosciente del fatto che nel nostro generale modo di pensare italiano, diviso in due e in quanto tale rincretinito dal bipolarismo politico, utilizzare sostantivi come “sindaca”, “assessora”, “consigliera” eccetera viene da molti percepito come una manifestazione linguistica della cultura di centrosinistra, nel nome della parità di genere, mantra dichiarato del PD & Friends.
Peraltro, va anche ricordato che proprio le opposizioni di centrosinistra, riferendosi ad Elena Pavan, l’hanno sempre definita “sindaca” in interrogazioni, interpellanze, mozioni, comunicati stampa e quant’altro.
Agli inizi qualche esponente della controparte di centrodestra aveva anche obiettato sulla scelta al femminile delle minoranze, lanciando il monito circa l’opportunità di utilizzare termini “più consoni” come “sindaco”, per l’appunto, o “signora sindaco”.
Ramanzina rimasta poi inascoltata dai vari Vernillo & C., e ci mancherebbe altro visto che nel nostro Bel Paese vige ancora la libertà di espressione.
Ma da qui a considerare l’uso dei nomi al femminile nell’indicazione degli incarichi istituzionali nientemeno che un reato amministrativo punibile con sanzione pecuniaria, ce ne vuole.

Eppure, in questa estate 2024 dove la notizia principale è la perdurante ondata di caldo, la grande ostrica della politica nazionale ha fatto uscire la perla assoluta.
Si tratta di una proposta di legge a firma del senatore della Lega Manfredi Potenti.
E per fortuna che il provvedimento da far approvare in Parlamento non è stato presentato da una sua collega donna, perché a questo punto non so se avrei potuto scrivere “senatrice”.
La bozza legislativa del senatore Potenti si propone di “vietare negli atti pubblici il genere femminile per neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato, ai gradi militari, ai titoli professionali, alle onorificenze e agli incarichi individuati da atti aventi forza di legge”.
Niente più “sindaca” dunque, ma neanche “avvocata”, “architetta” e così via.
Secondo il firmatario della PdL si tratta di un intervento normativo “necessario” per porre un freno a quella che l’esponente leghista considera un’eccessiva creatività espressiva nei documenti delle istituzioni.
“La presente legge - affermano le premesse del testo legislativo, riportate dell’ANSA - intende preservare l’integrità della lingua italiana ed in particolare, evitare l’impropria modificazione dei titoli pubblici, come ‘Sindaco’, ‘Prefetto’, ‘Questore’, ‘Avvocato’, dai tentativi ‘simbolici’ di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo.”
I Potenti mezzi del testo legislativo impongono pertanto “il divieto del ricorso discrezionale al femminile o sovraesteso a qualsiasi sperimentazione linguistica”.
È ammesso l’uso del maschile universale “da intendersi in senso neutro e senza alcuna connotazione sessista”.
L’obiettivo, come recita l’articolo 1 del PdL, è quello di “preservare la pubblica amministrazione dalle deformazioni letterali derivanti dalle necessità di affermare la parità di genere nei testi pubblici”.
E per i trasgressori, di cui si occupa l’articolo 5, “la violazione degli obblighi di cui alla presente legge comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 1.000 e 5.000 euro”.

Devo subito riferirvi, al di là del fatto che si tratta di un provvedimento ancora in forma di bozza, che lo stesso partito del promotore della proposta e cioè la Lega si è subito dissociato dalla genialata del suo parlamentare.
Fonti della Lega hanno dichiarato oggi sempre all’ANSA che “la proposta di legge del senatore Manfredi Potenti è un’iniziativa del tutto personale” e che “i vertici del partito, a partire dal capogruppo al Senato Massimiliano Romeo, non condividono quanto riportato nel PdL il cui testo non rispecchia in alcun modo la linea della Lega che ne ha già chiesto il ritiro immediato”.
Ma al netto di quello che sarà l’esito dell’iniziativa parlamentare, che si preannuncia infruttuoso, mi sento di dire ancora due o tre cose.
Il senatore Potenti è toscano e quindi è un “depositario geografico” della lingua di Dante, la quale è del tutto diversa da quella che noi parliamo oggi.
E questo perché le lingue scritte e parlate sono dei veri e propri organismi viventi, che si trasformano in continuazione. Non sono le regole a decidere l’uso ma è l’uso che decide le regole, mutandole nel corso del tempo.
Per questo la dichiarata intenzione della proposta di legge di voler “preservare l’integrità della lingua italiana” è goffamente pretenziosa.
Quale integrità? Decisa da chi? In base a quali regole?
Come conferma una fonte linguisticamente autorevole qual è il dizionario Treccani, scrivere “sindaca” è grammaticalmente corretto, esattamente come “sindaco”.
“Chi scrive sindaca - si legge su treccani.it - adopera con efficacia le risorse flessive messe tranquillamente a disposizione dalla nostra lingua: sindaco/sindaca, avvocato/avvocata, postino/postina ecc. seguono la normale alternanza di genere maschile/femminile, espressa attraverso le uscite -o e -a.”
Per cui, sempre da fonte Treccani, “non siamo di fronte a una questione di correttezza grammaticale, ma di adeguatezza nel trattare i nomi di mestiere al femminile”.
Sulla adeguatezza di parole declinate al femminile come “assessora” o “direttrice” si può anche discutere ma lasciamo stare, per cortesia, “l’integrità” della nostra madrelingua.
Che nessuno, peraltro, si sognerebbe di chiamare padrelingua.

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