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Alessandro Tich
Direttore Responsabile
Bassanonet.it
U.S.A. e scatta
“Dorothea Lange. L’altra America”. I volti e le figure della Grande Depressione e dell’Esodo Americano per la disastrosa siccità degli anni Trenta negli straordinari scatti della fotografa statunitense, in mostra al Museo Civico di Bassano
Pubblicato il 28-10-2023
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Macché Bob Dylan, anche se potrebbe starci bene.
Macché Bruce Hornsby, per quanto i suoi testi abbiano una forte connotazione sociale, oppure il grande Boss, Bruce Springsteen, che pure è il cantore rock delle contraddizioni del Sogno Americano.
Se dovessi mettere una musica sugli auricolari del mio smartphone mentre guardo le straordinarie fotografie esposte nella mostra “Dorothea Lange. L’altra America”, allestita nella Galleria Civica del Museo Civico di Bassano fino al prossimo 4 febbraio, sceglierei la malinconica e struggente combinazione country-folk di chitarra e voce di Hurt di Johnny Cash.
Dorothea Lange, 1936: ‘ Piccola abitante di Shacktown, Oklahoma City ’. Particolare. (foto della foto: Alessandro Tich)
“Oggi mi sono fatto del male per vedere se ero ancora in grado di sentire. Mi sono concentrato sul dolore, la sola cosa reale”. È l’inizio, tradotto in italiano, del testo della canzone, non certo da ascoltare quando si fa sagra.
Hurt è un inno al dolore di questa esistenza terrena e insieme alla dignità umana, che permette di affrontarlo. Per questo si abbina in modo quasi naturale ai volti e alle figure dell’“altra America” colti dall’obiettivo della Lange e immortalati con la gamma di colori insuperabili del bianco e nero.
È l’anti-America rispetto agli U.S.A. che ci siamo sorbiti a distanza crescendo qui in Europa con il mito a stelle e strisce, guardando Disney, masticando chewing gum e bevendo Coca Cola: un “Paese reale” agli antipodi dei lustrini di Hollywood, raccontato per immagini nel duro ventennio tra le due guerre mondiali del Novecento.
La mostra bassanese co-inaugura la riapertura totale del Museo Civico, riallestito e rinnovato nella Pinacoteca al primo piano.
Prosegue il filone della grande fotografia al femminile, già proposta due anni fa, con grande apprezzamento di critica e di pubblico, con l’esposizione degli scatti di Ruth Orkin, pioniera - e statunitense anche lei - del fotoreportage.
“Dorothea Lange. L’altra America” è organizzata e promossa da CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia di Torino con i Musei Civici di Bassano del Grappa ed è curata da Walter Guadagnini, che di CAMERA è il direttore, e Monica Poggi.
Riflettori accesi, dunque, su una grande donna prima ancora che su una grande fotografa.
Dorothea Lange (1895-1965) si presentava nel suo biglietto da visita come Photographer of the people, la fotografa della gente.
Era nata nel New Jersey da una famiglia borghese di origini tedesche: per questo, per il suo cognome, la pronuncia “Langhe” è più accreditata rispetto a “Leing” con la “g” dolce.
Fu co-fondatrice nel 1952, assieme ad altri grandi nomi della fotografia come Ansel Adams e Minor White, di Aperture, la più autorevole rivista fotografica al mondo. È stata anche la prima donna fotografa a cui il MoMa di New York dedicò una retrospettiva nel 1965, pochi mesi prima della sua scomparsa.
Ed è stata, soprattutto, una figura di assoluto primo piano della documentazione sociale americana.
Proprio lei, borghese del New Jersey, aveva scelto di non fotografare i divi o i grandi protagonisti del suo tempo, ma di concentrarsi invece sugli “ultimi” di un’America che stava affondando nella Grande Depressione. Un’umanità dimenticata che lei coglieva nelle sue inquadrature con grande empatia, fortemente sensibile alla grama esistenza di quei suoi connazionali colpiti al cuore dal tracollo economico.
Le sue immagini dimostrano infatti comprensione, partecipazione e rispetto per l’altro, unitamente a una formidabile capacità di lettura del contesto sociale del suo Paese rafforzata dal rapporto sentimentale e professionale con il marito, l’economista Paul Taylor.
Non solo fotografa, quindi, ma acuta sociologa dell’obiettivo.
Le quasi 200 foto selezionate ed esposte al Museo Civico, provenienti dagli archivi della Library of Congress di Washington e dalla Public Library di New York, focalizzano l’attenzione sul periodo d’oro della carriera di Dorothea Lange, dagli anni Trenta del ‘900 alla Seconda Guerra Mondiale, per dare conto della varietà e profondità della sua ricerca, sempre tesa a restituire un sincero ritratto di ciò che la circondava, senza filtri e senza pose precostituite. Naturalezza dello scatto allo stato puro: come affermò lei stessa, “la macchina fotografica è uno strumento che insegna alla gente come vedere il mondo senza di essa”.
Le immagini in mostra condensano le tre principali tematiche che ispirarono in quegli anni l’impegno di indagine sociale della fotografa.
Il primo filone testimonia per immagini il lato oscuro della vita nelle città, nella Grande Depressione degli anni Trenta dopo il crollo di Wall Street del ’29.
La carriera fotografica “on the road” della Lange è partita proprio da qui, decidendo di uscire dal proprio studio per ritrarre disoccupati e indigenti che vagavano, facevano la coda per cercare un’occupazione o dormivano sulla strada per le vie di San Francisco. Il suo obiettivo coglieva la noia dei senza lavoro, le manifestazioni di protesta e la disperazione che colpiva gran parte della popolazione.
Sono le foto che l’hanno fatta conoscere: trampolino di lancio verso il racconto dell’America profonda che ha trovato in Dorothea molto più di una testimone oculare.
Sempre negli anni Trenta, alla depressione economica si è infatti aggiunto negli U.S.A. il dramma dei disastri ecologici, che a quanto pare non costituiscono un problema esclusivamente collegato al mondo di oggi.
Sono stati gli anni del Dust Bowl, la “conca di polvere”: una serie di tempeste di sabbia che colpirono gli Stati Uniti centrali a causa di decenni di tecniche agricole inappropriate senza rotazione delle colture.
Terreni improduttivi, siccità devastante per i raccolti: sono state le cause dell’Esodo Americano. Oltre mezzo milione di americani rimasti senza casa, fuggiti verso Ovest dalle loro terre diventate inospitali - in particolare dal Texas, dal Kansas e dall’Oklahoma - in direzione soprattutto della California, iniziando una nuova vita negli stenti come lavoratori migranti.
Da questo esodo di massa nacque il progetto Farm Security Administration (FSA): un grande programma di studio e documentazione, soprattutto fotografica, sulla drammatica situazione dei contadini costretti ad emigrare in cerca di lavoro, per comunicare al resto della popolazione americana l’assoluta necessità di aiuti e solidarietà nei confronti di questi loro sfortunati connazionali.
Il funzionario incaricato dal governo per il progetto FSA, Roy Stryker, ingaggiò allo scopo alcuni tra i principali fotografi statunitensi del momento.
Tra questi c’era anche Dorothea Lange e dal suo incontro ravvicinato con gli americani esodati è nata una pagina eccezionale di storia della fotografia.
“L’Altra America” della Lange esposta a Bassano è soprattutto - anche se non esclusivamente - quella dei volti rurali, scolpiti dalla fatica, scavati dall’emarginazione, provati dalle privazioni e insieme dignitosi, di queste persone e di queste famiglie travolte dal destino.
È a questa serie di ritratti di una realtà sconvolta e desolata che appartiene la sua foto più celebre e celebrata, scattata in un campo di raccoglitori di piselli a Nipomo (California) nel 1936, icona del ‘900 e immagine simbolo della mostra stessa: la Migrant Mother.
“Famiglia di lavoratori agricoli migranti. Sette bambini affamati. Madre di trentadue anni”, scrive la fotografa nelle sue note. In mostra sono esposti anche i suoi scatti di avvicinamento a quella madre accampata con la sua prole sotto una tenda di fortuna, fino a trovare la “foto perfetta”: la donna in mezzo all’inquadratura, lo sguardo perso di lato, la mano appoggiata al mento, il figlio più piccolo in braccio, altri due figli che le si avvinghiano sulle spalle.
Un’epifania della disperazione: diretta, spontanea, naturale, istantanea. Perfetta.
L’Esodo Americano colto dall’occhio di Dorothea non è fatto solo di volti, ma anche di luoghi e di situazioni di lavoro e di vita.
È una documentazione globale, rafforzata dagli appunti della fotografa che in mostra a Bassano costituiscono le didascalie delle foto esposte, a conferma della profondità del suo lavoro di indagine sociale.
Qualche esempio? “Profughi dall’Oklahoma, vittime delle tempeste di sabbia”, “Un tempo agricoltore del Missouri, ora bracciante agricolo migrante sulla costa del Pacifico”, “Ora di cena. Migrante in Oklahoma a causa della siccità, senza riparo, spera di lavorare nella raccolta delle pesche”, “Vecchio coltivatore di cotone. Le terre che ha ereditato sono ora pesantemente ipotecate”, “Madre dell’Arkansas arrivata in California con il marito e gli undici figli per iniziare una nuova vita”. Eccetera.
In una foto della Lange c’è anche la Coca Cola, quella del mito a stelle e strisce con cui sono cresciuti qui in Europa almeno quelli della mia generazione.
Ma è una inconfondibile bottiglia di Coca, riempita di latte, su cui una giovane madre col piccolo figlio in braccio, in viaggio in California con la famiglia nel 1939 a un mese dalla partenza dal South Dakota, ha attaccato un ciuccio al posto del tappo per usarla come biberon.
La sublime arte di arrangiarsi è anche made in U.S.A.
C’è un’ultima e altrettanto sorprendente parte della mostra al Museo Civico che illustra un’altra storia misconosciuta dell’America alternativa e marginale della prima metà del ‘900.
Su commissione del governo americano, Dorothea Lange si occupò anche della controversa vicenda dei campi di prigionia per cittadini giapponesi, ovvero giapponesi-americani, presenti sul territorio statunitense dopo l’attacco nipponico a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941.
Ma in questo caso le sue fotografie, a causa del suo atteggiamento critico nei confronti della politica governativa, furono sostanzialmente censurate e riportate alla luce solo molti anni più tardi.
Gli scatti di soggetto giapponese sono ulteriori testimonianze della profondità e della lucidità del suo sguardo fotografico e sono esposti per la prima volta in Italia in modo esaustivo proprio in occasione della rassegna di Bassano.
Le inquadrature della Lange dedicate a questi nuovi evacuati e emarginati sociali dimostrano lo stesso approccio empatico della fotografa nei confronti degli agricoltori migranti, con l’unica differenza che i volti ritratti hanno gli occhi a mandorla.
Alcune foto colpiscono al cuore, come quella della “giovane evacuata Kimiko Kitagaki che sorveglia i bagagli di famiglia prima di partire con il bus per il centro di raccolta di Tanforan”, come l’immagine del “nonno e nipote di origine giapponese nel centro di trasferimento di Manzanar” e diverse altre ancora.
Sono innanzitutto documenti fotografici, immediati, diretti e naturali come sempre: ma traboccano di umanità.
Per questo “Dorothea Lange. L’altra America” è molto più di una mostra fotografica.
È uno specchio sulla condizione umana, che riflette l’imprevedibilità della nostra esistenza e fa riflettere.
Sono immagini che vanno oltre il loro luogo e oltre il loro tempo e che parlano di crisi climatica, migrazioni, discriminazioni. Temi attuali ancora e sempre, rappresentati con una forza e soprattutto con una modernità sorprendenti.
Alla direttrice dei Musei Civici Barbara Guidi va riconosciuto il merito di avere proposto, assieme a CAMERA Torino e in sinergia con l’amministrazione comunale, questa occasione di arricchimento culturale.
Come una brava fotografa, ha inquadrato il progetto, ha calcolato bene l’esposizione, lo ha messo nitidamente a fuoco e, facendo coincidere la mostra con la riapertura del Museo riallestito, ha colto l’attimo.
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