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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Alessandro TichAlessandro Tich
Direttore Responsabile
Bassanonet.it

Attualità

Mastro Bernardi

Ispirato da un pezzo di legno e da Italo Calvino, il maestro della ceramica contemporanea Toni Bernardi ha ripreso a produrre le sue opere. A lui è dedicata una mostra nel Ceramic Pavillon del Le Nove hotel nel Comune della Ceramica

Pubblicato il 24-06-2023
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Brassaï. L’occhio di Parigi

— C’era una volta.…
— Un re! — diranno subito i miei piccoli lettori.
— No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.

Toni Bernardi. Foto Alessandro Tich

Ho ripreso tale e quale il celebre inizio del Pinocchio di Carlo Collodi, per me uno degli incipit più pazzeschi della letteratura italiana.
Perché è un incipit che si attaglia perfettamente anche alla storia che vi sto per raccontare.
Il protagonista però non è Mastro Geppetto, ma Mastro Bernardi: al secolo Toni Bernardi, 76 anni portati alla stragrande, originario di Vallonara dove è nato letteralmente “all’ombra del campanile”. È il più giovane dei cosiddetti Sette Samurai che dalla seconda metà del ‘900 hanno scritto la storia dell’arte ceramica contemporanea di Nove e Bassano.
L’Ultimo Samurai, si potrebbe ben dire.
Storico docente dell’Istituto d’Arte novese, sin dalla fine degli anni ‘60 ha intrapreso un importante percorso di ricerca sulla materia ceramica che lo ha portato ad esporre con riconoscimento della critica in mostre collettive e personali, tra le quali resta stagliata nella memoria da partecipazione al III Simposio Internazionale della Ceramica di Bassano del Grappa e Nove nel 1978.
L’ultima sua mostra personale, Il Vaso di Pandora, al Museo Casa Giorgione di Castelfranco Veneto, risaliva a cinque anni fa.
Ora l’artista, e professore in pensione, è il protagonista della nuova mostra Toni Bernardi. In viaggio, curata da Emanuel Lancerini con Lampi Creativi e Marco Maria Polloniato, allestita nel Ceramic Pavillon del Le Nove hotel nel Comune della Ceramica.
Il Le Nove hotel, peraltro, merita un breve discorso a parte. Perché non si tratta di un semplice albergo. Proprio su iniziativa di Emanuel Lancerini, che ne è il titolare, sin dall’inizio è anche un luogo di divulgazione e valorizzazione dell’arte ceramica in primis locale.
Il Ceramic Pavillon della struttura alberghiera è stato creato dopo il Covid “come regalo per noi”, mi spiega Lancerini.
E ogni anno lo spazio ospita tre mostre dedicate ad altrettanti filoni di ricerca: i maestri della ceramica, anche quelli meno conosciuti (non è il caso di Bernardi), i giovani emergenti del territorio e gli artisti in residenza vale a dire i “foresti” che a Nove vengono messi in contatto con le aziende della ceramica per realizzare le loro creazioni.
Per il filone dei maestri, la scelta quest’anno è ricaduta su Bernardi.
Il quale non solo ha accettato di buon grado la sfida, ma ha addirittura prodotto le sue nuove opere appositamente per la mostra. Sono pezzi unici creati al tornio e contraddistinti in gran parte dall’essenzialità e dalla leggerezza, due caratteristiche per le quali l’autore dice di ispirarsi ad Italo Calvino.
Uno dei pezzi forti dell’esposizione, per il significato che rappresenta, non è un’opera di ceramica, ma appunto il pezzo di legno: un ceppo contorto e striato di larice dell’Altopiano che ha aperto all’artista un nuovo orizzonte di ricerca formale.
La mostra è aperta ufficialmente al pubblico fino a domani, domenica 25 giugno, ma le opere principali rimarranno esposte ancora per alcuni giorni.
Conversare con Mastro Bernardi è un autentico piacere, oltre che un'occasione di arricchimento culturale. È come se la storia, la vocazione alla ricerca e la sapienza manuale della Terra di Ceramica parlassero con la sua voce.

Toni Bernardi, lei è da tanti anni “sul pezzo”. C’è dunque ancora voglia di esporre e di mostrare qualcosa di nuovo?
Più che esporre, il mio desiderio è quello di ricercare. Io ho un piccolo “problema”: la pensione mi consente di vivere. Quindi le ceramiche che produco non le produco per venderle, ma per il piacere di farle. E stranamente, come mi succede spesso in queste ricerche, a metà del guado mi sovviene un incidente di lavoro che mi mette sulla strada buona, mi scarica dalle tensioni iniziali e allora riesco anche a fare cose positive. In questa particolare circostanza mi sono messo a lavorare su invito di Emanuel Lancerini e Marco Polloniato che hanno avuto la bella idea di farmi rimettere in moto dopo una pausa di quattro-cinque anni. Alla mia età non ho più velleità di stare sulla breccia. Quello che mi piace è divertirmi nel lavoro e anche questa volta ci sono riuscito.

Mi racconta la storia del ceppo di legno da cui è partita l’ispirazione per la sua nuova produzione artistica?
Avevo in casa un trave di legno di larice che all’inizio si comportava come un trave normale. Poi ha cominciato a fessurarsi, fenomeno tipico delle piante sventà, quelle che il vento mette in rotazione durante la loro crescita. Lo stavo tagliando per bruciarlo quando, aprendolo, si è rivelato come una fonte strepitosa di stimoli. Perché da un punto di vista plastico questa forma che è venuta fuori ha una potenza incredibile. E allora all’inizio ho voluto aprire una sorta di tenzone con questo pezzo di legno e vedere cosa succedeva cercando di riscoprire nella ceramica delle affinità plastiche, ma non facili da ricavare. I primi pezzi li ho eseguiti pensando alle torsioni dell’albero che si generano attraverso le intemperie.

Come riesce a farlo, tecnicamente?
Premetto che io lavoro sempre al tornio e lavoro quasi esclusivamente con la terraglia, il materiale che è stato il mezzo con cui i novesi e i bassanesi hanno prodotto per secoli le loro ceramiche. Un impasto bianco che non vuole competere con la porcellana, ma certamente cerca di mettere in risalto quella che è la policromia delle ceramiche, soprattutto se dipinte sul biscotto e a basso fuoco. Quindi in qualche modo, pur essendo nato in Inghilterra, questo impasto ha consentito a Nove e a Bassano di costituirsi in una economia piuttosto buona. Ultimamente è andato scemando per cause forse congenite e quindi la terraglia viene prodotta in misura molto minore rispetto al passato. Però a me è rimasto questo debito di gioventù perché all’inizio io con la terraglia producevo per Sergio Campagnolo delle Ceramiche Costa e a colaggio. L’impasto riprodotto e usato a colaggio finisce negli stampi e assume qualsiasi forma lo stampo possiede. Con il rigore, ma anche con le intrinseche possibilità legate alla lavorazione al tornio, riesco ad ottenere risultati del tutto particolari.

Parlava prima di un “incidente di lavoro” che lo ha messo sulla strada giusta…
Sì, un piccolo incidente di percorso. Dopo aver eseguito un pezzo al tornio e averlo aperto e manipolato, è successo che stava afflosciandosi su sé stesso. Per fortuna si è fermato nel momento giusto e da lì è partita una sorta di gioco molto stimolante. Non ultimo per il fatto che io sono solito aprire i pezzi tirati al tornio. Aprendoli e distendendoli in orizzontale, sono riuscito, attraverso le rigature che il pezzo tirato al tornio si porta dietro e normalmente rimangono nascoste, a produrre gli ultimi vasi triangolari sui quali la mobilità della superficie è ripresa a rovescio. Questo mi ha consentito di ritornare su quelli che erano gli obiettivi iniziali, però con una maggiore scioltezza e una maggiore libertà plastica. Sono solito poi applicare un ingobbio di terra rossa, un’argilla che ho scovato in Val Camonica che ha una plasticità eccezionale e mantiene una colorazione rossiccia-mattone acceso. E con pennellate leggere non dico di aver rivaleggiato con le ceramiche di un tempo, ma di certo ho giocato a rimpiattino con le ceramiche popolari che rimangono la mia fonte di ispirazione.

Perché?
Perché nascono dalla rapidità, dalla sveltezza e anche dal sapiente uso del pennello e della spugna. È un gioco a rimpiattino che mi consente di essere sereno quando finisco il lavoro. E questo è un fatto fondamentale.

Lei dice di ispirarsi anche ad Italo Calvino…
Italo Calvino l’ho scoperto leggendo i primi suoi romanzi, ma soprattutto Le città invisibili e poi le Lezioni americane. La prima lezione che lui doveva tenere in una università americana è legata al tema della leggerezza. Essere leggeri, al giorno d’oggi, credo sia una virtù. E quindi mi porto appresso le Lezioni americane di Italo Calvino portando avanti la leggerezza, la rapidità, l’efficacia e la precisione che è fondamentale, seppure raggiunta sempre attraverso il gioco. È un esercizio che stranamente comporterebbe dei rischi, però se lo vivi in scioltezza e in serenità ti dà grandi soddisfazioni.

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