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Luigi Marcadella
Giornalista
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Esclusivo
Maggioranza silenziosa
Vota ormai un elettore su due. Il politologo Marco Almagisti commenta l’affluenza alle elezioni amministrative
Pubblicato il 17-06-2022
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Un elettore su due non va a votare.
Un problema grande come una casa per la qualità della nostra democrazia, già acciaccata da partiti poco funzionanti e da una lunghissima stagione di disaffezione verso la politica. Discorso a parte meriterebbe l’affluenza per il voto referendario fermatasi al 20.9%, a livello nazionale il risultato più basso di sempre.
Ciò che colpisce è la partecipazione alle Comunali, livellatasi su percentuali molto deludenti: a Padova ha votato poco più del 50% degli aventi diritto, a Verona il 55.1%, a Belluno il 46.5%.
Bassano del Grappa (foto di Alessandro Bizzotto)
Anche nei Comuni della cintura bassanese si è replicata la tendenza a disertare largamente le urne. Lo strepitoso successo di Simone Bontorin, rieletto sindaco di Romano d’Ezzelino con l’84.02% dei consensi, ha registrato un’affluenza del 56.06%. A Rosà, il nuovo sindaco Elena Mezzalira ha raggiunto un ottimo 64,65% dei voti, a fronte di una partecipazione degli aventi diritto ferma al 48.76%. A Schiavon, Simone Dellai ha vinto con il 68.65% in un quadro di affluenza al 49.29%. Marco Almagisti, politologo dell’università di Padova, è uno dei massimi conoscitori della pancia profonda dell’elettorato veneto.
Il non voto è la nuova maggioranza silenziosa?
«Una ventina di anni fa, una bravissima studiosa, Arjuna Tuzzi, occupandosi del fenomeno astensionista l’aveva definito “un assordante coro muto”. Credo che i fenomeni di disaffezione democratica negli ultimi anni siano stati, come spesso accade, tutt’altro che silenziosi. Per utilizzare le categorie di un grande intellettuale del Novecento, Albert Otto Hirschman, prima dell’exit (uscita) i cittadini hanno spesso utilizzato la voice (la voce). Ossia l’incremento dell’astensione segue un periodo trentennale in cui le contestazioni dei partiti tradizionali non sono mancate. Teniamo poi sempre conto che il voto è solo uno dei modi, importantissimo per la democrazia, in cui i cittadini possono partecipare. Cittadini che si astengono, perché insoddisfatti dell’offerta partitica possono poi essere cittadini attivi mobilitandosi su singoli temi che incontrano le loro passioni e i loro interessi: come l’ambiente, la sicurezza o la qualità della vita nel proprio quartiere».
I motivi dell’astensione sono tutti legati alla percezione della politica nazionale?
«La tendenza all’incremento dell’astensione non è soltanto italiana. Anche alle ultime elezioni francesi, al primo turno ha votato circa un cittadino su due. Poi, nei singoli paesi vi sono elementi peculiari a livello locale. Consideriamo le ultime elezioni amministrative a Padova: Sergio Giordani ha vinto con la percentuale più elevata mai conseguita da un candidato sindaco: il 58,4%. Il suo principale avversario, Francesco Peghin, di centrodestra, si ferma al 33,5% (27.405 voti) Il risultato è segnato da un’affluenza contenuta (50,2%), decisamente più bassa rispetto al turno precedente (nel 2017 aveva votato il 60,8%). Ma l’astensione ha colpito soprattutto l’area del centrodestra. Infatti, Giordani ha raggiunto nel 2022 quasi lo stesso numero di voti ottenuti cinque anni fa, al secondo turno (sono 47.779 i voti espressi per Giordani nel 2022, erano 47.888 nel 2017 al ballottaggio, quando Giordani si è affermato quale Sindaco per la prima volta, con il 51,8% dei consensi).
La sfiducia nei partiti viene da lontano. Si è afflosciata nel tempo anche l’energia dei movimenti antisistema. Pesa anche questo?
«Sì. La sfiducia nei partiti viene da lontano. Non dimentichiamo che in Italia trent’anni fa abbiamo visto inabissarsi un’intera classe dirigente e, con essa, i partiti fondatori della Repubblica, con le loro storie, i loro simboli e le loro culture politiche. Un fenomeno che, in queste proporzioni, non trova eguali nelle democrazie consolidate. Da allora hanno fortuna elettorale i partiti anti – establishment che poi spesso devono misurarsi con la prova del governo e con il possibile ridimensionamento delle aspettative suscitate».
Siamo destinati ad una democrazia dove vota sostanzialmente un elettore su due?
«È una tendenza difficile da invertire, ma non impossibile. In particolare, quando le alternative in campo sono molto nette la mobilitazione torna a essere consistente. Se pensiamo alle ultime elezioni presidenziali americane, con la contrapposizione fra Biden e Trump, abbiamo un’affluenza record: in valori assoluti mai così tanti americani avevano votato per eleggere il Presidente e in percentuale si torna a livelli di affluenza che mancavano da più di un secolo. Cambiando contesto e tornando a noi alle ultime elezioni politiche, nel 2018, la partecipazione è calata, ma è stata ancora attorno al 73%. Spetterà ai partiti cercare di bloccare l’emorragia e mobilitare le persone offrendo alternative valide».
Analizzando le tendenze di voto disponibili, Fratelli d’Italia è destinata a superare nei consensi la Balena Verde in Veneto?
«Ci vuole molta cautela a trasferire in ambito più generale le considerazioni che emergono dal voto alle amministrative. Basti pensare al ruolo svolto da moltissime liste civiche. C’è però una questione aperta e che vediamo ampiamente esposta sui giornali: la fortuna della Lega in Veneto è legata a posizioni autonomiste, che intercettano i tratti di una cultura politica profonda sedimentata nel corso del tempo. La svolta “nazionale” imposta da Salvini deve tenere conto di questo fattore. Anche perché quale partito di destra, nazionale, c’è la concorrenza di una leader efficace quale Giorgia Meloni, che, essendo all’opposizione del governo Draghi, ha margini di manovra più ampi».
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