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Virus globale e gestione locale

Il ruolo delle autorità locali nella gestione del Covid: straordinaria lettera aperta al direttore di Giovanni Spitale, solagnese, ricercatore all'Università di Zurigo e studioso di epidemie, dopo il mio editoriale “Mi sono rotto i tamponi”

Pubblicato il 22-10-2020
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Dopo la pubblicazione dell'altro ieri del mio editoriale “Mi sono rotto i tamponi”, abbiamo ricevuto in redazione una lettera di commento trasmessa da Giovanni Spitale, solagnese in origine, emigrato a Zurigo da qualche anno per seguire la carriera accademica.
Spitale, ricercatore presso l'Istituto di Etica Biomedica e Storia della Medicina dell'Università di Zurigo, si occupa in particolare di bioetica e attualmente gestisce un grosso progetto di ricerca sull'infodemia e sulla sua gestione. L'infodemia (neologismo coniato dall'OMS a seguito della pandemia da nuovo Coronavirus) è la sovrabbondanza o l'eccesso di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili. Un'ondata straripante, continuata e incontrollata di “news” e di “fake news”, nella fattispecie relative al Covid-19, su cui l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha da tempo lanciato l'allarme.
“Mi permetto di inviarvi una lettera aperta al Direttore, ispirata dall'articolo “Mi sono rotto i tamponi” - scrive Giovanni Spitale nella sua email -. Si tratta di alcune considerazioni fondate su evidenze empiriche che ritengo possano essere utili per il Sindaco e per la cittadinanza. Ho cercato di tenere uno stile il più possibile piano e divulgativo, semplificando senza trivializzare.” Si tratta di una straordinaria riflessione sulla gestione “locale” delle epidemie basata su un fatto storico realmente accaduto nella seconda metà del 1600 in una piccola comunità del Derbyshire inglese e attualizzato ai tempi nostri.

Un “Plague Cottage” di Eyam, il villaggio nel Derbyshire inglese la cui comunità si mise volontariamente in quarantena per la gravissima epidemia di peste del 1665-66

È un testo molto lungo, ma anche molto interessante. Quasi un mini-saggio, da leggere con calma e con attenzione:

LETTERA AL DIRETTORE

Egregio direttore,
Mi chiamo Giovanni Spitale. Sono un “cervello in fuga” solagnese, faccio il ricercatore all’Università di Zurigo in un istituto che è collaborating centre dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Studio le epidemie. Meglio, studio come persone e società reagiscono alle epidemie in modo da capire cosa funziona e soprattutto cosa NON funziona. Lo faccio perché la bioetica è il mio lavoro e la mia passione (credo che qualche bassanese ricordi i miei lavori sulle donazioni di organi, tessuti e cellule, i miei libri o il progetto “Città del Dono”), ma anche perché ritengo un dovere fare del mio meglio per aggiustare le cose rotte sulle quali ho competenze e capacità.
Ispirato dal suo articolo, “Mi sono rotto i tamponi”, ho pensato di condividere alcuni ragionamenti riguardo al ruolo delle autorità locali nella gestione delle epidemie. Viviamo in tempi in cui improvvisamente le persone stanno iniziando a capire che la scienza va ascoltata, che ascoltare cosa la scienza suggerisce sulla base delle evidenze può fare la differenza. Spero quindi che attraverso le pagine di Bassanonet queste idee possano giungere all’attenzione del Sindaco e dei cittadini.

Alcuni anni fa, visitando un amico residente a Liverpool, ho deciso di dedicare del tempo ad una piccola escursione nel Peak District. È così che, in un’isolata valle del Derbyshire, ho potuto visitare il villaggio di Eyam, tristemente noto a chiunque abbia messo il naso nella storia dell’epidemiologia. Nel settembre 1665 il paese venne colpito da una gravissima epidemia di peste, che arrivò a decimare la piccola comunità: nell’ottobre 1666, a fine epidemia, 257 delle circa 700 persone residenti ad Eyam erano decedute.
Secondo la vulgata, fondata su cronache locali, il contagio sarebbe stato causato da una cesta di vestiti importati da Londra da Alexander Hadfield, il sarto del villaggio. Pochi giorni dopo aver ricevuto il pacco, probabilmente infestato da pulci infette, moriva di peste George Viccars, assistente di Hadfield. Nonostante alcuni moderni studi accettino questa versione, la reale causa dell’epidemia rimane poco chiara: svariati autori ritengono, ad esempio, che sia stata causata piuttosto da un reservoir enzootico di roditori selvatici. In altri termini, topi appestati che si sarebbero avvicinati al villaggio.

Un punto sul quale le cronache ottocentesche e gli studi contemporanei sono invece in accordo è la gestione dell’epidemia da parte dei cittadini di Eyam, quantomeno peculiare per l’epoca. Sebbene le meccaniche del contagio non fossero chiare, la prima risposta alle epidemie di peste nel diciassettesimo secolo era spesso la quarantena. Una misura invisa a chi vi si trovava sottoposto, e spesso violentemente opposta: in questo senso sono apprezzabili, tra le molte, le testimonianze contemporanee di Samuel Pepys, testimone oculare della Grande Peste di Londra del 1665-1666.
A Londra, scrive Pepys, la limitazione del contagio richiede misure drastiche: “Una guardia è necessaria giorno e notte per tenere in casa le persone, avendoci la peste resi crudeli come cani gli uni contro gli altri”. Ad Eyam invece le cose presero una piega differente: il pastore locale William Mompesson persuase la popolazione locale riguardo alla necessità di istituire un cordone sanitario, ponendo il villaggio in stato di quarantena volontaria al fine di proteggere dal contagio le altre comunità della regione.

Ricordo due dei punti di maggior interesse durante la mia visita ad Eyam. Il primo: Cucklett Church, una “chiesa senza chiesa”. Preoccupato che la messa potesse divenire occasione di contagio, William Mompesson prese a dire messa all’aperto. Il secondo: il pozzo di Mompesson, un luogo di scambio al confine nord del paese, utilizzato dagli abitanti dei paesi vicini per lasciare cibo e medicamenti alla comunità in quarantena.
Alcuni autori contemporanei hanno ipotizzato che in realtà queste misure potrebbero aver contribuito ad innalzare il tasso di mortalità tra i cittadini di Eyam: secondo Massad, Coutinhoa, Burattini e Lopez “l'ipotesi che il confinamento abbia facilitato la diffusione dell'infezione aumentando il tasso di contatto attraverso la trasmissione diretta è plausibile” (Massad et al. 2004); ciononostante, rimane chiaro ed universalmente accettato che questa politica di quarantena volontaria era intenzionale e umanitaria; era logicamente coerente con la conoscenza prevalente della peste, ed è stata perseguita con grande coraggio di fronte a perdite enormi. Inoltre, è storicamente acclarato che il sacrificio di Eyam ha sicuramente bloccato il diffondersi della peste nella regione, evitando centinaia di migliaia di morti nelle comunità circostanti.

La pestilenza di Eyam terminò nell’ottobre 1666, lasciandosi alle spalle 257 morti ed una serie di domande, alcune delle quali di carattere marcatamente etico. Quali misure è giusto adottare per provare a limitare un’epidemia? Quali sono giustificabili, e se lo sono, in base a quali principi? Dove tracciare il confine tra i diritti degli individui e quelli delle comunità?
Cercherò di evitare complicazioni teoriche non necessarie, ma qualcosina è da mettersi sul tavolo per ragionare con ordine. Ad oggi la riflessione sull’etica pubblica ruota principalmente a quattro approcci: quello deontologico-kantiano, quello utilitarista, quello principialista e quello basato sulla casistica.
Ross Upshur ha proposto un interessante adattamento epidemiologico del principialismo standard di Beuchamp e Childress, introducendo quattro principi specificamente disegnati per situazioni in cui si rendano necessarie misure di quarantena:
1. Danno: la limitazione delle libertà di individui o gruppi è giustificabile solo qualora sia indispensabile per evitare di recare danno ad altri;
2. Metodi meno coercitivi possibile: eventuali azioni giustificate dal primo principio dovrebbero sempre utilizzare le misure più blande possibili. In altri termini, educazione e discussione dovrebbero precedere interdizione o regolamentazione;
3. Reciprocità: le società all’interno delle quali vengono intraprese misure di salute pubblica devono essere pronte a compensare ogni forma di inconvenienza causata agli individui o ai gruppi soggetti a tali misure;
4. Trasparenza: tutte le persone interessate da misure di salute pubblica devono essere coinvolte (direttamente o per via rappresentativa) nell’intero processo decisionale, ed il processo decisionale deve essere il più chiaro possibile (Upshur 2002, 2003).

La storia della pestilenza di Eyam è unica: per quanto ne sappia si tratta dell’unico caso nell’intera Storia, dalla peste di Atene ad oggi, in cui un’epidemia sia stata gestita da una comunità locale in maniera etica. Si rivela un caso paradigmatico, tenendo a mente le limitate conoscenze mediche disponibili all’epoca, se letto alla luce dell’approccio di Upshur:
1. La limitazione della libertà di movimento dei cittadini di Eyam, tramite l’istituzione del cordone sanitario, era giustificata dal rischio di diffondere il contagio nella regione;
2. Le misure di quarantena impiegate furono in effetti concertate, relativamente blande (o meglio, commisurate alla gravità della situazione) ed accompagnate da informazioni sulla prevenzione del contagio (come ad esempio le messe all’aperto);
3. I paesi circostanti fornirono supporto materiale continuativo alla popolazione di Eyam;
4. Al contrario di quanto avvenne a Londra - secondo i diari di Pepys - ad Eyam le decisioni in materia di quarantena non vennero imposte, ma furono discusse apertamente all’interno della comunità, grazie all’impegno del pastore Mompesson.

Il mondo di oggi è certamente più complicato della società inglese rurale del 1600 e la pandemia di COVID-19 non ha il suo focolaio principale in un paesino di 700 anime.
Ciò non toglie che la storia di Eyam e della sua quarantena volontaria non possano essere utili per fornire indicazioni utili riguardo a come comprendere e gestire alcuni aspetti della situazione attuale.
In primo luogo, dobbiamo tenere a mente che le persone che vivono oggi non sono radicalmente diverse dalle persone del quattordicesimo o del diciassettesimo secolo, e che le nostre risposte istintive a fenomeni spaventosi ed incomprensibili come un’epidemia tendono a convergere. L’ignoranza genera paura, la paura genera caos, il caos genera morti.
Per questa ragione è imperativo provvedere informazioni ed azioni non solo tempestive, ma anche politicamente coordinate ed univoche al fine di ridurre i margini in cui tende a svilupparsi il caos sociale, del quale gli attuali atteggiamenti di sospetto e frammentazione (sì mask, no mask, negazionisti, guelfi e ghibellini) sono i chiari prodromi.

Secondariamente, sia a livello locale che a livello globale, è necessario impiegare solamente misure che siano giustificate da un effettivo rischio, che - fatta salva la loro sicurezza - siano più blande possibile, che siano il più possibile concertate. Ci tengo a sottolinearlo: “più blande possibile” non vuol dire “blande in senso assoluto”. Vuol dire “misure proporzionali alla gravità della situazione”, che è di fatto grave.
È qui che gli amministratori locali diventano cruciali: un governo regionale o un governo nazionale non possono conoscere le situazioni ed i casi specifici di ogni città, via per via e piazza per piazza. Non sanno nulla di come la gente si comporta al bar oppure al mercato.
Per questo una gestione locale di un evento globale è indispensabile: perché solo gli amministratori locali possono stabilire quali siano le misure giuste, commisurate alla realtà locale.
Le responsabilità fanno sempre paura. Lo so bene, il mio lavoro mi chiede di assumerne molte e spesso su scala nazionale. A due mesi dal mio arrivo in Svizzera, nel 2017, iniziavo a lavorare come consulente per l’Ufficio Federale della Sanità Pubblica (l’equivalente del nostro Ministero della Salute) per rivedere la legge nazionale sulla donazione di organi (buffo - ed un po’ triste - che ci sia riuscito in un Paese in cui sono straniero e non nel mio). Oggi lavoro ad un progetto di risposta all’infodemia che sarà lanciato su tutta la Svizzera a novembre, alla presenza di autorità dell’OMS che stanno già valutando di estendere gli sforzi ad altri Paesi.

Ma quando ci si trova in posizioni di responsabilità bisogna essere capaci di lanciare il cuore oltre l’ostacolo, perché molto dipende dalle nostre decisioni e dalla nostra capacità di prenderle in maniera rapida, efficace e fondata sulle migliori evidenze scientifiche.
Al contrario di quanto si è detto negli scorsi mesi, non è una scelta binaria tra proteggere l’economia oppure la salute. Salute ed economia sono intrinsecamente legate: di nuovo, dalla peste di Atene ad oggi, ci sono dinamiche che si ripetono sempre uguali: prima salgono i morti, poi iniziano i problemi economici, i quali generano proteste e caos sociale, che causa un incremento dei contagi e quindi dei morti. È un gatto che si morde la coda, uno particolarmente rognoso ed incazzato, perché è un processo che si autoalimenta in una spirale verso il basso, alla fine della quale non muoiono solo le persone, o le attività economiche. Alla fine muoiono le società.

Quindi: facciamoci coraggio. Come il pastore Mompesson, siamo chiamati a gestire qualcosa che non ha precedenti, ma fortunatamente la scienza ha fatto giganteschi passi avanti dal 1600. Sappiamo cosa accelera e cosa rallenta la diffusione di COVID-19.
Esorto il Sindaco ed anche i cittadini a leggere il John Snow Memorandum (che magari Bassanonet potrebbe pubblicare in versione tradotta), un documento firmato da oltre 5000 scienziati che condensa il meglio delle evidenze scientifiche sulla gestione della pandemia.
Le scelte contano, quelle di tutti. Mettere o non mettere la mascherina, chiudere o non chiudere una determinata via ad una determinata ora, incrementare o ridurre il trasporto pubblico: sono tutte cose che possono fare la differenza. I prossimi mesi saranno difficili, è inutile negarlo. Ma ciò che verrà dopo, se sarà la fine di questa pandemia o la fine delle nostre società per come le conosciamo dipende da noi. Coraggio.

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