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Luigi Marcadella
Giornalista
Bassanonet.it
Esclusivo
Bilanci in sicurezza
Intervista all’asiaghese Manuel di Casoli, capo della sicurezza della multinazionale Pan American Energy
Pubblicato il 09-08-2024
Visto 6.426 volte
A metà luglio un problema dei sistemi operativi Windows di Microsoft, legato al software di sicurezza informatica CrowdStrike, ha fatto tremare le aziende di mezzo mondo. Aerei a terra, stop delle transazioni finanziarie, paralisi operativa di molte attività d’impresa. Si è trattato dell’ennesimo evento globale utile almeno per ricordare la potenziale fragilità delle strutture di business aziendali rispetto agli shock esterni. Ma la sicurezza delle imprese non è più solo quella fisica o quella appunto cyber, con la ramificazione delle catene globali della produzione in ogni angolo del pianeta è investita oggi anche dagli effetti degli “spostamenti” della geopolitica. La sicurezza, di fatto, è ormai una scienza che collega tante dimensioni e saperi diversi.
Cybersicurezza, analisi dei mercati dove si insediano le attività produttive, salvaguardia dei trasporti, sicurezza fisica dei dipendenti all’estero e dei manager. Sono tutti aspetti che coinvolgono la sicurezza dei bilanci non solo delle grandi corporation internazionali ma anche delle medie aziende che commerciano e intrattengono rapporti con l’estero. Recente è il caso della Nigeria, economia emergente dell’Africa e al tempo stesso nazione dove i rischi per le imprese sono diventati altissimi. Tanto che alcune multinazionali hanno deciso di andarsene dal Paese: hanno lasciato Diageo, PeG e Microsoft Africa. Troppa instabilità, troppa violenza, alti costi per la sicurezza e deficit infrastrutturali ancora molto limitanti.
Manuel di Casoli (Pan American Energy)
Capitolo a parte per il Medioriente: il conflitto allargato Israele-Iran-Libano è solo la punta dell’iceberg dei rischi operativi e di mercato che le aziende possono trovare in questa strategica parte del Mediterraneo.
L’asiaghese Manuel di Casoli, classe 1965, è uno dei manager italiani più apprezzati nell’ambito della sicurezza aziendale. Dopo una lunga carriera come ufficiale dell’Arma dei Carabinieri è stato direttore security e business continuity di Expo 2015 (l’Esposizione Universale di Milano), incarico che lo ha proiettato poi in Fieramilano Spa e infine all’estero. Attualmente è Chief Security Officer di Pan American Energy, il primo operatore privato nel settore energetico in Argentina e tra i primi in America Latina.
Dottor di Casoli, cosa significa concretamente gestire la sicurezza di una multinazionale?
«Significa soprattutto creare una struttura che sappia conservare apertura mentale e flessibilità nel leggere con profondità la realtà. Nessuna azienda esiste per essere sicura, la sicurezza è il fattore abilitante all’esercizio delle sue attività specifiche. La visione della sicurezza come il “poliziotto dell’azienda” o come il “pompiere delle emergenze” è profondamente antiquata, sbagliata e riduttiva, oltre che dispendiosa e inefficiente. In questo senso, deve integrarsi nell’azienda come una delle funzioni di management e sapersi porre come interlocutore affidabile in ogni situazione. Nelle grandi aziende la funzione sicurezza partecipa ad ogni attività d’impresa fin dalla sua progettazione e pianificazione».
Quali sono le criticità aggiuntive per chi si occupa della sicurezza di una grande compagnia energetica transnazionale?
«Una compagnia energetica svolge attività ad alto rischio in contesti problematici, con investimenti colossali che necessitano di essere costantemente garantiti e protetti. Le fonti di energia, siano esse tradizionali o rinnovabili, hanno il difetto di trovarsi sempre in luoghi scomodi, estremi e pericolosi, e questo comporta la necessità di proteggere le nostre persone e garantire la loro attività in situazioni difficili».
Operate in Sud America, specialmente in Argentina, Brasile e Messico. È un ulteriore elemento geografico di attenzione?
«Sicuramente. Noi europei non siamo abituati alle dimensioni, alle distanze ed alla variegata complessità geografica e sociale degli altri Continenti. Da sola l’Argentina è più grande dell’intera Unione Europea, il Brasile è un subcontinente, non solo una Repubblica Federale, il Messico ha 127 milioni di abitanti con 30 mila omicidi all’anno, 40 volte le statistiche criminali dell’Italia. Il ruolo dei sindacati varia da quello stile “Italia anni Settanta” dell’Argentina a quello di associazioni criminali del Messico, passando per ogni possibile sfumatura. Costruire un impianto eolico in Brasile prevede la complessità di realizzare delle autostrade in terra battuta a dieci corsie nella foresta, che nel giro di un anno tornano ad essere inghiottite dalla vegetazione. Sono fenomeni molto lontani dalle nostre esperienze quotidiane».
Una parte centrale della sicurezza delle multinazionali concerne la cybersicurezza. Quali sono le evoluzioni più recenti?
«Nella realtà di oggi, non solo il patrimonio delle informazioni ma la stessa operatività di un’azienda risiedono in gran parte nella propria struttura informatica. Questo vale per la piccola azienda come per un colosso mondiale. Chiaramente la superficie esposta al rischio cambia significativamente per una grande azienda, ma la complessità non è solo un fattore di rischio ma anche una risorsa di resilienza, tecnica ed organizzativa. Spesso l’esposizione a rischio varia molto in relazione alla percezione sociale dell’attività dell’impresa, a prescindere dalla logica. Un’azienda che estrae litio è spesso sotto attacco, ma è indispensabile all’economia verde propugnata dagli stessi attaccanti...».
In che senso?
«Per fare un paragone immediatamente comprensibile, non lasceremmo mai i nostri figli a casa da soli con la porta aperta. Però li lasciamo navigare per il mondo con in mano uno smartphone. Lo stesso vale per le aziende. Chiudiamo la saracinesca la sera e inseriamo l’allarme, ma magari non aggiorniamo l’antivirus o non abbiamo un firewall. I delinquenti, tanto il ladro quanto l’hacker (o il nostro concorrente) lavorano 24 ore al giorno, anche mentre noi riposiamo. E hanno sempre dalla loro parte l’iniziativa. La cosa più importante è non abbassare mai la guardia. E magari investire qualche euro».
Vi occupate anche della sicurezza fisica dei vostri dipendenti. In cosa consiste la vostra attività di prevenzione?
«La protezione non ha molto senso se non comincia con un’attività di prevenzione accurata ed efficace. In questo senso lavorare in contesti rischiosi “facilita” la prevenzione. C’è un’attenzione maggiore verso questi temi, addirittura una richiesta pressante. La nostra attività di prevenzione spazia dalla formazione sul comportamento da tenere nel corso di viaggi in luoghi a rischio, alle cautele nelle connessioni dati, dalla scelta e selezione degli itinerari, alle dotazioni di equipaggiamento. È svolta in modo interdisciplinare con le altre funzioni di tutela, da quella sanitaria alla safety, per calare la prevenzione nei singoli contesti lavorativi».
Perché la geostrategia sta diventando ormai imprescindibile per la sicurezza economica delle aziende che lavorano con l’estero?
«La sicurezza delle aziende inizia con una corretta analisi e valutazione dei rischi, sin dalla fase di business plan iniziale. Rischi per le persone, rischi per gli asset, per la catena logistica e dei fornitori, per l’immagine e per il credito. Se l’analisi non è omnicomprensiva si lasciano spazi aperti ad eventi che possono innescare una catena di conseguenze che può rivelarsi tragica o economicamente insostenibile. Concettualmente, questo processo non è diverso per un’attività da impiantare o sostenere in Europa o in Yemen. Toyota, per dare un esempio, ebbe perdite ingenti per la chiusura delle frontiere tra Usa e Canada l’11 settembre. Ovviamente cambiano le proporzioni e l’intensità dei rischi in scenari di instabilità, che spesso sono anche i più lucrativi o quelli nei quali ad un’azienda fornitrice viene chiesto di operare. Quasi tutto si può fare sempre, ma con le dovute cautele. Dalla geopolitica si deve arrivare alla concretezza delle attività: questa complessità richiede competenze non banali».
Prendiamo il caso di una media azienda veneta che apre un nuovo canale di business in Africa, piuttosto che in Asia o in Sud America. Quali sono i rischi principali che bisogna valutare?
«Ho parlato di completezza e complessità dell’analisi e valutazione di rischi, perché si tratta di un’attività che non può essere “fatta in casa” da una Pmi. Anche le aziende grandi devono ricorrere in molti casi a società specializzate per ottenere un quadro affidabile del contesto nel quale talvolta si deve operare. Inoltre, la legge italiana prevede uno stringente “duty of care” da parte dell’azienda nei confronti del proprio personale. Il mio consiglio è quello di affidarsi a professionisti seri».
Spesso è un problema di risorse, soprattutto per le aziende di taglia più piccola.
«Molti anni fa iniziai un confronto informale con alcune associazioni imprenditoriali per segnalare l’opportunità di fornire alle aziende associate una serie di servizi di sicurezza aziendale diversi dalla vigilanza e dal portierato, per porre le Pmi in condizione di usufruire di attività specialistiche che non sono nemmeno ipotizzabili senza dimensioni organizzative importanti. Parlo di analisi specialistiche, come la “loss prevention”, servizi di valutazione del “rischio Paese” e azioni di mitigazione o servizi in loco in aree a rischio, incluse assistenza medica o evacuazione, che spesso sono assai complessi e delicati. Rimango convinto che dovrebbe essere un servizio fornito a livello di associazioni imprenditoriali».
Cosa la preoccupa di più - lato operatività delle aziende - dei tanti focolai di rischio che si accavallano in giro per il mondo?
«La sottovalutazione del rischio e soprattutto l’abitudinarietà. Quella delle aziende che “abbiamo sempre fatto così” e quella delle persone che si espongono a rischi senza percepirli e fanno sempre le stesse cose nello stesso modo. Se c’è una costante nella realtà del mondo di oggi è che non esistono costanti. Le situazioni cambiano nel giro di poche ore, e sopravvivere al cambiamento non è sempre scontato, purtroppo».
Qual è l’insegnamento più importante che si porta dietro dalla sua precedente vita con la divisa?
«Che l’uomo è il centro dell’universo. Comandare gli uomini richiede prima di tutto profonde doti umane, da coltivare e sviluppare con passione e razionalità assieme».
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