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Redazione
Bassanonet.it
Primo piano
Lo Scopus dell’economia circolare
Il bassanese Navarro Ferronato entra nel top 2% dei ricercatori nel campo delle scienze ambientali
Pubblicato il 12-11-2023
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Nei giorni scorsi il ricercatore bassanese Navarro Ferronato ha ricevuto un’importante attestazione del suo impegno scientifico nel ramo delle scienze ambientali. È stato infatti inserito nel “Top 2% scienziati del mondo 2023”, un elenco che comprende, all’interno di 22 discipline scientifiche e 176 sotto campi, i ricercatori più citati nel database Scopus. Nello specifico, rientra nel primo 2% tra i circa 100mila ricercatori che lavorano nel campo delle scienze ambientali a livello globale (ed è il più giovane per “età accademica”).
Scopus è una sorta di classifica all’interno della quale il numero di citazioni rappresenta il grado di apprezzamento dei singoli ricercatori nel panorama scientifico internazionale. 33 anni, diplomato al Liceo Brocchi (indirizzo scientifico tecnologico), Navarro Ferronato svolge attualmente attività di ricerca presso il dipartimento di Scienze Ambientali dell’Università Insubria, dopo aver conseguito la laurea in Ingegneria Ambientale e il dottorato di ricerca in scienze ambientali. Nelle prossime settimane uscirà un suo nuovo paper per l’”Environmental Research”, prestigiosa rivista di scienze ambientali edita dalla casa editrice olandese Elsevier.

Navarro Ferronato (Discarica Hell Ville)
Gli studi che lo hanno posizionato nella parte alta del ranking delle citazioni scientifiche riguardano innovativi lavori collegati alla gestione del ciclo dei rifiuti e alla valorizzazione della cosiddetta “FORSU” (la frazione organica del rifiuto solido urbano). Attualmente i rifiuti organici derivanti dalla raccolta differenziata seguono due grandi destinazioni: il compostaggio o la strada dei digestori allo scopo di produrre energia elettrica o calore.
«L’obiettivo è ridurre il più possibile l’impronta carbonica del ciclo di vita dei prodotti di consumo. La ricerca si sta orientando verso tecnologie in grado di giungere ad una sorta di upcycling, ovvero riutilizzare i materiali di scarto per creare prodotti addirittura di maggiore qualità. Nel prossimo futuro, per esempio, potremmo ottenere bioplastiche dalla lavorazione dei rifiuti organici».
L’Unione Europea ha da tempo fatto propri i principi dell’economia circolare, un passaggio epocale del nostro sistema industriale imposto dall’ingresso in una fase storica in cui la “conta” delle risorse naturali sta mandando continui ed inequivocabili segnali di allarme. Nella seconda più grande economia avanzata del mondo, l’Europa, l’economia circolare servirà per ritarare i sistemi manifatturieri e dei servizi in una logica vicina al motto “ripara, riutilizza e riuso”.
«Perché serve la circolarità? Il cambiamento climatico e la scarsità di risorse ce lo impongono. È cambiato il principio di base rispetto ai rifiuti: non solo dobbiamo riciclarne il più possibile ma in primo luogo dobbiamo ridurli drasticamente in termini di quantità. Allo stato attuale siamo quasi totalmente dipendenti dai Paesi esteri a basso reddito, l’Africa o il Sud America, sia per l’importazione di materie prime sia per l’esportazione di rifiuti e scarti, che generiamo qui in Europa e non riusciamo a riciclare. Importiamo risorse, sempre più scarse, ed esportiamo rifiuti in quantità sempre maggiori. È un modello insostenibile che dobbiamo rivedere in tempi brevi. Un esempio? Il 10% delle emissioni climalteranti arriva dal “fast fashion”, prodotti della moda “usa e getta”, fatti molto spesso in poliestere. In Ghana e in Cile ci sono due tra le più grandi discariche mondiali a cielo aperto di rifiuti tessili. Solo in parte vengono smaltiti, in larga misura vengono bruciati o finiscono nei mari e negli oceani».
La consapevolezza dei tempi sempre più stretti per riorganizzare il paradigma generale del modo di produrre, consumare e riciclare, parte della più ampia strategia delle misure di mitigazione degli effetti del cambiamento climatico, è un argomento divenuto molto divisivo, con fasce delle società poco elastiche e propense ad adeguarsi ai cambiamenti culturali che ci attendono per proteggere l’ecosistema e le risorse naturali.
«I ragazzi hanno già preso atto delle conseguenze del cambiamento climatico, è necessario uno sforzo ulteriore per accogliere i dubbi anche di chi è scettico o addirittura negazionista. Per questo serve una seria divulgazione scientifica e un’informazione di qualità, molto bottom-up, dal basso verso l’alto. Chi ha oggi 60 o 70 anni non vedrà i mutamenti che il cambiamento climatico ci obbligherà a fare, mentre i 40enni di oggi saranno invece testimoni di grandi trasformazioni».
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