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Salviamo il sociale (e il potere d’acquisto aggiungiamo noi) è il titolo della manifestazione unitaria che i sindacati veneti, Cgil, Cisl e Uil hanno organizzato per il prossimo martedì 29 novembre a Venezia.
L’inflazione che si mantiene altissima, quasi un +12% anno su anno, sta assumendo i contorni davvero di un’emergenza sociale per i redditi più bassi. Anche chi ha un lavoro con un reddito dignitoso rischia di scivolare ai confini della povertà, visto che tra bollette pazze e carrello della spesa fuori controllo sarà sempre più difficile far quadrare i conti.
«Si tratta di un’inflazione molto diversa dagli anni passati.

Roberto Toigo (Segretario regionale UIL Veneto)
Dipende da fattori internazionali, non dall’economia interna del nostro Paese. Basta guardare ai numeri dell’inflazione in giro per l’Europa.
Con il contestuale aumento delle materie prime, la crisi energetica e i problemi climatici che hanno fatto alzare i prezzi di tanti beni alimentari, una soluzione immediata è difficile da trovare», ammette Roberto Toigo, segretario regionale della Uil Veneto, rieletto per la seconda volta a luglio di quest’anno.
Segretario Toigo, l’inflazione è ormai la prima urgenza sociale del Paese. A prescindere dal tipo di inflazione, il sindacato normalmente ha una posizione ben riconoscibile sulle politiche economiche per preservare il potere d’acquisto.
«Certamente, la prima cosa da fare è controllare chi ne sta approfittando, perché ci sono molti prezzi che stanno aumentando senza logica, in una rincorsa pericolosa per recuperare i mancati guadagni dovuti alla pandemia. Io proporrei una commissione nazionale di controllo dei prezzi sui beni di prima necessità».
E per salvare il reddito del lavoro dipendente?
«Lo Stato sta incamerando con questa inflazione notevoli maggiori introiti fiscali. È arrivato il momento di ridare quei soldi ai lavoratori tramite una minore tassazione sulle buste paga».
A peggiorare il quadro, in Veneto mediamente i salari e gli stipendi sono tra i più bassi d’Italia.
«Come UIL regionale abbiamo un ulteriore dato di analisi. Sulle 80.000 dichiarazioni dei redditi che compiliamo per lavoratori dipendenti e pensionati, abbiamo stimato un reddito medio lordo di circa 22.000 euro annui».
Esiste secondo voi una necessità di rivedere i meccanismi di regolazione dei vari contratti di categoria?
«Certo, si possono chiedere tutti gli aumenti salariali che si vogliono, ma le aziende che rappresentano la base larga dell’economia veneta sarebbero in grado di sostenerli? Capisco benissimo il senso della domanda, in Veneto il problema dei redditi arriva però da più lontano. Abbiamo una struttura industriale che produce principalmente componentistica da esportare sui mercati esteri e la competitività su questi settori è molto risicata.
All’estero, in Francia o in Germania, producono e assemblano prodotti finiti sui quali è più facile avere maggior valore aggiunto».
Quindi la seconda Regione industriale d’Italia ha un problema sui redditi?
«Sì, negli anni è risultato diciamo poco “visibile” come problema perché c’è una diffusa disponibilità di servizi pubblici essenziali di alto livello, a cui bisogna aggiungere anche l’effetto cuscinetto di altre variabili economiche, finanziarie e sociali».
In Veneto le aziende più strutturate e solide da tempo hanno attivato politiche di welfare innovative, attraverso bonus e benefit una tantum ai dipendenti. Dove è possibile intervenire per ampliare il più possibile la platea di queste misure?
«Il piccolo è bello non funziona più purtroppo, bisogna ammetterlo. Abbiamo assoluta necessità di pensare ad una nuova politica industriale a livello nazionale e anche regionale, in primis per sostenere la produttività, gli investimenti e l’innovazione. Corriamo seriamente il rischio di essere i più colpiti dalla transizione ecologica che verrà».
In che senso?
«Il passaggio dall’auto a motore termico a quella elettrica produrrà circa 10.000 licenziamenti solo in Veneto. I pezzi che verranno a mancare nei motori elettrici arrivano quasi tutti dalla filiera veneta dell’automotive. Le Pmi devono trovare nuove formule per restare in piedi. Fino ad oggi tutti i microimprenditori si sono arrangiati, hanno tenuto duro senza guardarsi attorno, in solitaria. Una soluzione potrebbe essere quella delle centrali di acquisto comuni per beni e servizi».
Realizzabili davvero?
«Con questi prezzi dell’energia, delle materie prime, dell’acciaio, i margini delle microimprese vanno a zero. Serve una taglia diversa per avere potere contrattuale con i grandi distributori. Le piccole imprese in alcuni casi si stanno già “cannibalizzando” per accaparrarsi in tempo la fornitura di alcune materie prime».
La Finanziaria si è fatta con le poche risorse disponibili. Ma come valuta le misure introdotte?
«Siamo al gioco dell’oca, l’ennesimo. Ogni volta che si insedia un nuovo governo, la scusa pronta è quella di aver appena iniziato. La lettura è comunque molto semplice: è una manovra contro i pensionati e i lavoratori dipendenti. Hanno tolto l’adeguamento del 7,3% per le pensioni lorde oltre i 2.600 euro. Se tu continui a togliere il potere d’acquisto cosa succederà da qui ai prossimi mesi. Hanno messo tutte le risorse per le partite iva, mentre per quella fascia larghissima di lavoratori dipendenti che hanno un reddito che si aggira sui 22mila euro, quelli di cui si parlava prima, cosa hanno fatto? Per loro l’inflazione al 12% non esiste?»
Si prevede un congelamento della crescita economica nel 2023. Quali settori la preoccupano di più?
«Agricoltura, tessile-abbigliamento e metalmeccanico. Sia per i risvolti della transizione ecologica sia per i prezzi di energia e materie prime. Mettiamo la lente su una singola provincia: nel bellunese, la Costan di Limana non rinnoverà 270 contratti a termine, stessa cosa per la Safilo. L’Acc di Mel ormai è un problema noto a tutti, idem per la Pandolfo di Feltre. Solo nel bellunese nelle prossime settimane evaporeranno 1.200-1.300 posti di lavoro. Zaia parla di cigno nero, io parlo di tempesta perfetta. Se non pensiamo ad una politica industriale anche regionale rischiamo di parlare nuovamente di povertà anche in Veneto».
La demografia è un altro tallone d’Achille della nostra economia. Mancano lavoratori, specializzati e non, ma con la crisi in arrivo è ancora urgente la questione dei flussi?
«Il problema più grave del Veneto è che tra 20 anni non ci saranno praticamente più ragazzi in età da lavoro. Ma già da qui a 10 anni tutti gli scenari che si prefigurano sono drammatici. Quindi servono flussi regolati e soprattutto politiche di accoglienza per i nuovi arrivati, di formazione alla lingua e alla sicurezza sul lavoro. Quindi sì ai flussi ma con politiche di integrazione ben precise. Se si va a Mestre e si vede cosa succede per le strade si capisce cosa significa non gestire i flussi migratori».
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