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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Luigi MarcadellaLuigi Marcadella
Giornalista
Bassanonet.it

Lavoro

Social Work

Con la manager bassanese Alessandra Scapin aggiorniamo la quarta mappa del lavoro che cambia. Partendo dalle (deludenti) proposte della campagna elettorale

Pubblicato il 11-09-2022
Visto 5.256 volte

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Brassaï. L’occhio di Parigi

È una campagna elettorale strana, stranissima. Troppi giganteschi problemi fuori dai nostri confini (guerra, energia, materie prime, tassi di interesse in aumento) rendono paradossalmente la vita facile ai grandi leader politici, che possono permettersi di stare “alti” sui grandi temi e di non affrontare quelli più spinosi, che hanno bisogno di proposte concrete, coperture finanziarie e che soprattutto potrebbero essere divisivi.
Non è un riflesso di “bassa” antipolitica, è quello che si sente dire da imprenditori, artigiani, professionisti, esercenti, ristoratori.
Con una differenza anagrafica: quelli più in là con gli anni si lasciano in qualche modo trasportare dalle passioni politiche, i più giovani – più algidi in tema di appartenenze – rimangono sconcertati rispetto alla povertà delle discussioni sui temi economici.

Alessandra Scapin (IMG SPA)

È il caso della manager bassanese Alessandra Scapin, classe 1989, quattro lingue: inglese, spagnolo, tedesco e cinese, esperienze in Heineken, Procter & Gamble, MSC Crociere, LABO International, oggi del comitato di direzione dell’azienda IMG SPA, leader in Europa nel settore undercarriage , la realizzazione delle catene per trattori e scavatori. Nell’azienda di Riese Pio X ha gestito l’ultimo programma di rebranding per sviluppare nuovi mercati esteri.

Le imprese come osservano questa anomala campagna elettorale?
«Penso purtroppo che tutti gli schieramenti si affannino su temi passati, ignorando i problemi reali dell’Italia. Il nostro debito pubblico continua a salire verso livelli-record, l’inflazione sale, il Pil frena pericolosamente, è allarme rosso sul fronte dei prodotti energetici e delle materie prime. Sembra quasi che la parola d’ordine sia far finta di nulla dilungandosi sui fatti di ieri anziché su quelli di domani tra tanti “se” e tanti “ma”. Invece che offrire ricette concrete, spesso e volentieri i leader si arrampicano sugli specchi».

La campagna elettorale non ha in agenda discussioni legate ai cambiamenti organizzativi del mondo del lavoro. Partiamo dal divario di genere tra uomini e donne.
«“Gender equality” vuol dire apprezzare e valorizzare professionalmente tutto il capitale umano, considerando le differenze tra donne e uomini una risorsa e ricchezza professionale, oltre che individuale. Sono diverse le azioni che possono essere intraprese: per esempio aumentare il ricorso a forme di lavoro flessibili che favoriscano il ruolo delle madri. Usare altri benefit, oltre allo stipendio, che possano riconoscere il ruolo importante delle donne. E adottare leggi che impongano le “quote rosa” nelle aziende, come fatto l’Italia con la legge “Golfo-Mosca”».

Sulla effettiva parità salariale quanto manca?
«Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha presentato una proposta di direttiva per garantire la parità di retribuzione tra uomini e donne impiegati nello stesso lavoro. Ma il costo zero non esiste, dobbiamo investire tempo, risorse ed energie se vogliamo veramente arrivare ad una parità tra uomini e donne. E dobbiamo farlo adesso: siamo già il fanalino di coda dell’Europa, vogliamo davvero restare fermi a guardare?».

Cosa è rimasto delle novità organizzative approntate d’urgenza per lavorare anche durante la pandemia?
«La pandemia ha accelerato l’evoluzione verso forme di organizzazione più flessibili e intelligenti e soprattutto ha cambiato le aspettative di imprese e lavoratori. Diverse grandi aziende stanno sperimentando modelli alternativi di lavoro, con la ricerca di nuovi equilibri fra presenza e distanza. In altre realtà invece si sta facendo un passo indietro e si sta tornando prevalentemente al lavoro in presenza a causa della mancanza di una cultura basata sul raggiungimento dei risultati. Un arretramento che si scontra con gli obiettivi di digitalizzazione, sostenibilità e inclusività del nostro Paese».

Sicuramente una normativa aggiornata sul lavoro flessibile aiuterebbe…
«Lo smart working non è una misura emergenziale, ma uno strumento di modernizzazione che spinge ad un ripensamento di processi e sistemi manageriali all’insegna della flessibilità e della meritocrazia. Ai lavoratori bisogna dare una maggiore autonomia e responsabilizzazione sui risultati. Ma c’è un aspetto che è fondamentale sottolineare proprio in questo periodo: i benefici ambientali legati allo smart working».

Per esempio?
«La possibilità di lavorare in media 2,5 giorni a settimana da casa porterà a significativi risparmi di tempo e risorse per gli spostamenti: 123 ore l’anno e 1.450 euro in meno per ogni lavoratore che usa l’automobile per recarsi in ufficio. In termini di sostenibilità ambientale, si può stimare che l’applicazione dello smart working ai livelli previsti dopo la pandemia comporterà minori emissioni per circa 1,8 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno, pari all’anidride carbonica che potrebbero assorbire 51 milioni di alberi».

Se dovesse prolungarsi la crisi energetica e questa stagione di aumento generalizzato dei prezzi per forza di cose si dovrà mettere mano all’organizzazione del lavoro.
«Lavorare e vivere in modo più intelligente consente alle famiglie di ridurre le spese di trasporto e di vita in generale. Dalla sola riduzione degli spostamenti in auto, un lavoratore “da casa” per la metà del tempo può risparmiare in media 2.000 euro l’anno. Il lavoro agile è uno strumento per combattere l’emergenza della crisi energetica, che è più ampia del “caro bolletta” e riguarda tutto il mercato delle materie prime e dell’energia. Le organizzazioni devo comunque cambiare perché il mondo sta cambiamento e continuerà a cambiare a passo svelto. Le aziende del futuro devono essere fluide, porose, disponibili al cambiamento».

Con questi prezzi e con queste bollette è comunque difficilissimo pensare al futuro.
«Non pretendiamo che le cose cambino se continuiamo a farle nello stesso modo. La crisi può essere una vera benedizione per ogni persona e per ogni nazione, perché è proprio la crisi a portare progresso. La creatività nasce dall’angoscia, è nella crisi che nascono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere superato».

Lei è una manager giovane in un sistema dove il potere vero tende ad arrivare tardi. Ma le ultimissime generazioni che si affacciano al mondo del lavoro sono differenti dalle altre. Che cosa vede in giro per le aziende?
«La GenZ rivendica la libertà di essere ciò che è, sradicando gli stereotipi di genere e scegliendo di vivere liberamente al di fuori di preconcetti binari.
Le aziende che vorranno essere attrattive per i giovani dovranno applicare sempre più politiche di diversity management, rendendo l’inclusività un elemento di valore per l’impresa. Costruire un ambiente di lavoro equo significa abbandonare gli stereotipi e valutare ogni dipendente per capacità e competenze. Leadership significa inclusività e apertura, non dominio e potere».

È una domanda che mi capita di fare spesso: quale sarà il cambiamento nel lavoro che ancora non riusciamo ad immaginare?
«I social media rappresentano una delle più grandi fonti di cambiamento al mondo del lavoro nell’ultimo decennio. Non solo hanno fatto nascere dal nulla dei veri e propri giganti come Instagram, Facebook e Twitter, ma hanno anche creato degli ambienti digitali in cui si completano transazioni, comunicazioni lavorative e si crea valore. Ecco perché la conoscenza dei social, da molti ancora considerati un inutile perdita di tempo, potrebbe aprire porte lavorative in modo ben più sorprendente di un percorso accademico vecchio stampo».

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