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Un topo chimera con geni che hanno almeno 400 milioni di anni
Non è facile stare a guardare un film come Biutiful.
Non solo per le tematiche cupe e la visione angosciante che dell’oggi dà, ma anche, e forse soprattutto, per il realismo eccessivo delle immagini, per il ritmo lento, se non piatto, che si trascina con cupa lucidità verso il finale.
Vincitore, meritato, a Cannes per il miglior attore ex equo con l’italiano La nostra vita, e ora candidato all’Oscar, il film di Iñárritu si basa esclusivamente sulla toccante e magistrale interpretazione di Xavier Bardem nella parte del protagonista Uxbal.
Il film si svolge in una Barcellona atipica, lontana dall’immaginario festaiolo dei turisti, distante dagli angoli artistici. Quella che ci troviamo di fronte è infatti una città cupa, sporca, in cui i piccoli crimini la fanno da padrone. Laboratori cinesi, spacciatori africani, questo è il mondo con cui Uxbal fa affari. Uxbal però non è il classico sfruttatore senza cuore, anzi, il dono di parlare e di aiutare i morti a lasciare questo mondo (e questo è solo il primo inserimento occulto quasi forzato) lo portano a vedere nel suo “lavoro” un modo per aiutare e far sopravvivere immigrati e clandestini.
Perché proprio di sopravvivere si tratta. Lo stesso Uxbal, malato terminale di cancro, sofferente, padre disperato ma buono, marito tradito, incapace di amare e di guarire la moglie bipolare, cerca di vivere e sopravvivere. Quando infatti capisce, grazie a medici e medium, che il suo tempo sta per finire, il suo unico obbiettivo è di sistemare ogni cosa. L’angosciosa scoperta è che però ogni suo tentativo di miglioramento, ogni gesto buono verso famiglia e lavoratori, finisce per ferire e uccidere.
Iñárritu con questo film abbandona per la prima volta il racconto corale che lo ha reso famoso -Amores Perros, 21 grammi, Babel i più famosi- e cerca di focalizzarsi sul solo protagonista (pur permettendosi brevi e inefficaci divagazioni di racconto, vedi la storia d’amore omosessuale tra i due cinesi o il padre disperato che vuole comunicare col figlio morto). La telecamera è posta per indagare ed entrare nell’intimo di Uxbal, nell’interpretazione misurata e fedele di Bardem, e i pochi tentativi di cambio di ritmo (la scena nella discoteca ad esempio, con le visioni surreali) si rivelano un buco nell’acqua che distrae dal tema principale.
Il regista sembra aver perso il tocco magico della sceneggiatura (che sia per la mancata collaborazione con Guillermo Arriaga?) ora troppo lunga, forse, troppo pretenziosa.
Sul film cala quindi una nera oppressione di realismo e pessimismo che rendono difficile la visione e la digestione di una storia drammaticamente vicina al nostro quotidiano.
Il film è in programmazione alla sala J. Da Ponte.
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