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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Musica

Modalità lettura 4 - n. 6

Rospo, album capolavoro dei Quintorigo, compie 25 anni. Un tour è dedicato a celebrarlo. Sui palchi, la formazione originale con John De Leo. Un viaggio tra i testi dei brani e un'intervista

Pubblicato il 05-01-2025
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Brassaï. L’occhio di Parigi

La nostra rubrica dedicata alla lettura in questo numero guarda alla musica, musica e parole naturalmente, quelle dei testi contenuti in un album da scoprire, o da riscoprire, davvero interessante.
L’occasione è quella di un concerto nel Veronese, la data del tour più vicina a Bassano ospitata al The Factory di San Martino Buonalbergo il 28 dicembre, e l’incontro felice è quello con un disco senza tempo, un venticinquenne un po’wilde, raffinato e bellissimo con cuore nero annesso che cattura, e naturalmente con il gruppo che ne è l’artefice: i Quintorigo.

Quintorigo con John De Leo (foto Michele Piazza)

A salire sul palco non è la formazione consueta attiva dal 2004, ma quella originale al completo, con John De Leo. Cantante dalla voce straordinaria, compositore e frontman magnetico, De Leo da oramai vent’anni ha intrapreso un percorso da solista costellato di prestigiose collaborazioni foriero di lavori importanti. Quindi, sul palco del locale veronese: John De Leo alla voce, (Alessio Velliscig lo sostituisce dalla separazione) Valentino Bianchi al sax, Gionata Costa al violoncello, Andrea Costa al violino (sono fratelli) e Stefano Ricci al contrabbasso. Formazione atipica, dichiarativa del fatto che i componenti di Quintorigo hanno un rapporto di prossimità con la musica scritta.
Una reunion la loro, inizialmente un progetto di tre concerti nella triade autorevole Milano, Bologna, Roma, poi il calendario di date che si è via via ampliato grazie all’accoglienza entusiastica di estimatori e fan della prima ora e di altri che si sono avvicinati con curiosità, un pubblico attento e coinvolto che ha affollato le serate.
Al centro, come accennato, un album del 1999 titolato Rospo, disco che tra le altre cose è stato vincitore dei premi della Critica e per il miglior arrangiamento al Festival di Sanremo di quell’anno, e della prestigiosa Targa Tenco per la miglior opera prima (su YouTube la performance, con De Leo che lancia bellamente le trecce al pubblico dell’Ariston dalla torre di un castello dalle lucine pop, ma dai corridoi molto kafkiani).
Rospo segnò una svolta nella scena musicale italiana, e per il suo anniversario la Universal lo ristamperà per la prima volta in vinile, insieme a Grigio, secondo album del gruppo, le cui canzoni sono anch’esse protagoniste del concerto.
Dunque, oggetto della nostra attenzione i testi dell’album e la loro capacità di parlare a più livelli (emozionale, sociale, filosofico), elementi che legati alle musiche rendono l’opera articolata, da osservare nelle sue varie sfaccettature e da ascoltare nei contenuti profondi, estremamente attuali nella matrice esistenziale.

La partenza doverosa con Rospo, e i suoi “sono contento di essere infelice”, “il tuo sorriso mi disgusta”, “non puoi toccarmi dentro e libero dentro un mondo di favole” che già la dicono lunga: una dichiarazione di individualità e di rifiuto delle convenzioni, insieme un manifesto di ribellione scritto da un posto difficile e incantato in cui regnano i contrasti, quelli che riflettono alienazione e disagio, ma luogo d’elezione che si sceglie e si sceglierebbe daccapo, il mondo intorno qualcosa che costringe i principi come Amleto a voler essere “solo” rospi.
L’arrangiamento musicale sottolinea il tutto con cambi di dinamica che spaziano tra momenti introspettivi e aperture aggressive.

L’album in realtà si apre con Kristo, sì: un grido di fede o di sfida? “c’mon can’t you hear me?”, canta De Leo. La realtà intorno popolata di false Madonne-madonnine che piangono a cui si potrà credere soltanto quando le si vedrà ridere. Un dio che “non mi lascia vivere né morire”, condanna le esistenze a muoversi in una prigione, nessun miracolo in vista.

Nero vivo (aggettivo o no che sia quel vivo) è un brano denso di immagini crepuscolari e di un’energia di quelle che implodono. Il testo si muove tra la descrizione di un posto soffocato da nuvole e fuliggine e la ricerca di un giorno che, nonostante tutto, potrebbe arrivare, anche se chi canta gli dice forte “l’aspetterò senza sole”, e "la sopravvivenza non concede ingenuità". Al varco dell’alba, si fuggirà verso le nuvole, oltre i limiti. Una poesia francese d’antan eppure attualissima, questa cantata dai Quintorigo.

Sogni o Bisogni? non parla solo della lotta (a vincitore unico) tra il desiderio di perseguire i propri sogni e la pressione delle esigenze concrete del quotidiano, ma ha nel mezzo qualcosa che risuona tra il letterario e il cantato di quel The Man who sold the world che firmò Bowie (e poi i Nirvana).
Un cantastorie dice: “Facevo un tempo commercio di sogni/ho fatto anche il mercenario/e tu vuoi entrare nei sogni miei? il prezzo è alto ma trattabile”. Verso la fine aggiunge: “Decidi tu se potrai mai capire tutto questo/adesso mi rivesto/ma presto ti racconterò il resto”. Sono versi che dicono la disillusione, l’ineluttabilità, ma anche che qualcuno da qualche parte apre uno spiraglio e che il desiderio di sognare non si è spento, anche in chi ha già intrapreso da chissà quando, per bisogno, il cammino di venderle, le sue storie.

Tradimento mette in scena anime che oscillano tra connessione e alienazione, figure che sciamano da un dopo-party o dopo discoteca (visti gli anni), comunque dopo le notti da star di un sabato del villaggio, reduci da feste dove “è tutto consentito e diamo la colpa a un dito di vino di vino, Divino”.
Le epifanie delle notti stellate sono tradite da uomini e donne che tornano piccoli uomini e piccole donne, niente più favole o travestimenti, irriverenti le luci elettriche del giorno.

Deux Heures De Soleil si snoda a fotogrammi, come a fermo immagine da film. “On nous donne deux heures de soleil” è ripetuto quasi come un mantra, francese e inglese chiamati in alleanza a esprimere il desiderio e insieme la fugacità della bellezza che si va cercando intorno, tra “Parole che confondono insidie meschine strategie luci al neon che guardano immobili” e rifiuti tossici che inquinano l’anima. La nostra una società naturalmente guidata dalla manipolazione e dall’inganno in ogni campo, la politica, l’economia, la comunicazione, i rapporti umani.

Momento Morto è un inno allo spleen vissuto come un lasciarsi andare a fondo necessario: “lasciami qui senza successo sì, senza compromessi, senza spinte né promesse finte per andare sempre più su”. Chiede di essere capito e assecondato, chi scende a sostare al buio nei suoi scantinati, la fedeltà a se stesso tradotta in una modalità propria di rimettersi al mondo. I momenti morti (memento mori) possono generare una rinascita, laddove accada che qualcuno, qualche altro li comprenda: “almeno adesso ci sei tu/il tempo vale ancor di più/e se riesco ad esserti d'aiuto/la vita mi sorride non ride di me”.

Ogni brano è un piccolo universo, una performance teatrale, con i musicisti che danno vita a un dialogo continuo tra lirismo e sperimentazione. Le orchestrazioni atipiche e l’uso creativo, sapiente, degli strumenti, la maestria nello spaziare tra i generi — dal jazz al rock, dalla musica classica alla sperimentazione elettronica — creano un mosaico sonoro da tappeto volante. La cover presente nell’album, dedicata alla mitica Heroes, di David Bowie, è emblematica di questo approccio: trasforma il brano originale in qualcosa di nuovo, mantenendone l’essenza ma inglobata in una variazione autoriale firmata Quintorigo.

La potenza di Rospo non risiede solo nei testi, ma anche negli arrangiamenti complessi e nelle interpretazioni vocali audaci, spesso donanti ai versi quel tono di assurdo circense e dada che ne smorza la cupezza. Palude e acque cristalline si alternano, per un Re Rospo che ha compiuto venticinque anni: l’opera ha l’età giusta per parlare ora alla e della nostra epoca, nel contempo conferma che c’è un’età dell’oro in cui prodotti artistici come questo hanno origine, cioè nei dintorni dei vent’anni. Poi aumentano sapienza, maestria e consapevolezza per gli artefici. L’atto creativo originario rimane potente, ancorato alle canzoni.
Il concerto (davvero memorabile), come anticipato, ha proposto anche altri brani estratti da Grigio.

Qualche nostra domanda su Rospo, rivolta a Valentino Bianchi, portavoce del gruppo, e a John De Leo.

“Solo canzoni”, ma a distanza di venticinque anni ancora capaci di traghettare un sentire profondo e un’inquietudine esistenziale in cui ci si rispecchia e ci si riconosce.
Bianchi: Se così fosse, come speriamo che sia, allora si tratterebbe di piccoli “classici”, ovvero di opere che non perdono valore col tempo, rimangono in qualche modo attuali, hanno sempre qualcosa da dire o su cui far riflettere. Ma lasciamo che sia il pubblico a giudicarle tali.
De Leo: Lusinga sapere che ha distanza di anni qualcuno possa ancora reinventare il senso di certe nostre canzoni; di certo non aspiravano a tanto. Quando le abbiamo composte e arrangiate cercavamo semplicemente - e tenacemente - di avvicinarci a ciò che ci sarebbe piaciuto ascoltare, guidati dalla nostra esperienza ma anche dai demoni dall’inesperienza, dalla curiosità della giovinezza.

La vostra musica lo rende saltellante e anche allegro, l’amletico Rospo. Però di rospi da mandar giù ce n’è sempre di più, crescendo. Solo, diventa più tollerabile?
Bianchi: Rospi da ingoiare ce ne sono sempre, per tutti. Diciamo che sul piano artistico rimaniamo incorruttibili, incapaci di scendere a compromessi contro-natura. Con l’età certo siamo diventati meno intransigenti e puntigliosi, anche fra di noi, a quanto pare.
De Leo: I rospi da ingoiare oggigiorno mi sembrano ancora più indigesti di quelli di anni fa. Quando Rospo fu scritta si ispirava all’aria in circolo additandone alcuni aspetti negativi; ciò che si respira oggi è ancor più pesante, più greve di allora. E intendo riferirmi alla caduta libera che riguarda sia il cambiamento climatico, sia a quella pressione politica che opprime l’Italia e il mondo globalizzato tutto.
C’è poco da saltare. Sempre meno da tollerare. C’è da resistere. Sviluppare e promuovere empatia.

L’oggi e i progetti futuri, guardati con la necessaria “ironia che non prende alla sprovvista”?
Bianchi: Esattamente: ironia e autoironia sono cifre per noi indispensabili per interpretare il mondo e tradurlo in musica. Tale sarà il nostro approccio per un eventuale futuro del progetto.
De Leo: L’ironia non possiamo perderla altrimenti è davvero la fine. Inoltre dobbiamo augurarci sempre più assennatezza; la politica italiana e quella dei governi cosiddetti “civilizzati” non fanno più ridere. Se poi avessimo tutti un pensiero in più anche per gli altri cominceremmo a vivere e a divertirci sul serio.

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