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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Teatro

In coscienza, su Zeno

Primo spettacolo della rassegna thienese, un classico con Zeno Cosini naturalmente avvolto da nuvole di fumo interpretato da Alessandro Haber

Pubblicato il 15-11-2024
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Brassaï. L’occhio di Parigi

Lo spettacolo d’esordio della 44^ stagione teatrale del Comunale di Thiene ha visto protagonista in tre serate, dal 12 al 14 novembre, l’attore Alessandro Haber impegnato a interpretare Zeno Cosini nella trasposizione diretta da Paolo Valerio del romanzo La coscienza di Zeno.
Una delle grandi opere letterarie del Novecento, come noto, proposta in questa versione nell’adattamento realizzato da Valerio con Monica Codena. Una produzione in grande stile, firmata Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e Goldenart Production (diretta da Michele Placido).

Alessandro Haber in La coscienza di Zeno (foto di Simone Di Luca)

Sul palco, un allestimento raffinato, in grigio totale — un grigio-fumo permeante abiti e tessuti — ideato da Marta Crisolini Malatesta, con i personaggi in costume evocanti un’epoca collocata a cavallo tra Ottocento e Novecento e un mondo che gira intorno dai connotati mitteleuropei.
Prima dello svelamento della scena, un occhio enorme dai mille richiami proiettato sul telone del sipario (i numerosi inserti video erano a cura di Alessandro Papa) si muoveva aperto e scuro a scrutare: dietro e dentro, tutta una vita comune, la storia di un inetto nei suoi risvolti ordinari legati alla memoria, resi straordinari perché forniti di un’accurata, lenticolare, ossessiva narrazione.
In apertura, Haber claudicante si è seduto in poltrona e ha introdotto il suo racconto, compiuto l’atto di accendere l’ultima sigaretta. L’attore bolognese ha da subito messo in azione un linguaggio dalla musicalità speciale, virante, imprimendo accenti inusuali e brusche accelerate, forse a imitare la particolare “grafia” di Italo Svevo (Aron Hector Schmitz), che volle scrivere il romanzo in una lingua, l’italiano, che non era la propria.
Con Haber, già sul palco collocati di spalle, animati a turno da parole emerse dai ricordi e da pratiche diaristiche, i co-protagonisti di un’esistenza forgiata sui meccanismi dell’introspezione e dell’autosuggestione, indagati nell’opera con mezzi d’osservazione psicoanalitici: i genitori di Zeno, i membri della famiglia Malfenti, la moglie e l’amante, il cognato Guido, collega di commerci nell’ambiente di lavoro. A interpretarli, Francesco Migliaccio (un padre vociante, un padre-maschera), Valentina Violo, Ester Galazzi, Riccardo Maranzana, Emanuele Fortunati, Meredith Airò Farulla (Augusta), Caterina Benevoli, Chiara Pellegrin (Ada) e Giovanni Schiavo. A vestire i panni di Zeno da giovane, chiamato in causa in vari momenti votati all’azione dall’alter ego più anziano, è stato Alberto Onofrietti.

A creare i diversi ritratti di famiglia, in stile di medaglione fotografico d’antan ma anche in un mosso dinamico, protagonisti di una galleria di eventi ben noti a chi ha letto il romanzo, altri brevi video e momenti arricchiti di effetti speciali — a un certo punto è comparsa a bagnare tutti la pioggia, poi è volata intorno una bella nevicata di fogli-lettere, o pagine di diario; è comparso uno scorcio di Trieste, con il suo mare ventoso e ha fatto capolino la luna. Ben presente nella trasposizione la dimensione onirica legata indissolubilmente al “paziente” Zeno, che mettendo in scena i ricordi di una vita offre il suo male di vivere all’interpretazione — di un dottor S. (Sigmund) e anche dello sguardo del pubblico.
A enfatizzarla, oltre alle scene suddette, diversi elementi narrativi e immagini fiabesche come quella di un paio di sedie salite fino al soffitto diventate quasi altalene.
Credibile e appassionato, a fare i conti con la sua coscienza, lo Zeno incanutito oltre i parametri stabiliti da Svevo incarnato da Haber. Meno coinvolgente il gioco delle parti dei redivivi, prodotti della memoria e del ricordo, ma raffiguranti più un’estrinsecazione della trama del romanzo che presenze teatrali che si impongano a un nuovo riconoscimento, presenze-personaggio.

L’opera letteraria di Svevo mette in scena magistralmente la realtà quotidiana, con i suoi vuoti, l’assurdo e le assenze di significato. Quello di Zeno Cosini è il dramma dell’ordinario, e giustamente è un libro complesso a raccontarlo. Ma leggere è leggere, e andare a teatro è andare a teatro — collocata anche fuori copione, il teatro deve far venire un po’ “di pelle d’oca”. Invece già dai primi momenti ci si è trovati di fronte a un prodotto ben confezionato, facente capo a riferimenti drammaturgici importanti, con apporti di effetti tecnologici raffinati e un attore protagonista ispirato e all’altezza, ma come accade spesso con i grandi capolavori della letteratura traghettati sul palcoscenico: lo scarto è tra la potenza di un testo esemplare — che qui parla di dipendenze, di immersioni nei labirinti della psiche umana, di malessere esistenziale e che termina addirittura con un’esplosione alla Zabriskie Point — romanzo sopravvissuto per cent’anni all’addomesticamento della scuola, all’incuria dei lettori e alle sviste dei non lettori, e una sua rappresentazione ossequiante, tesa inconsciamente (sarebbe a tono) a lucidarne il monumento, quindi in fondo de-scrittiva al quadrato, giocoforza depotenziata.

In ogni caso, poiché gli indici del gradimento ai nostri giorni non lo danno riflessioni come queste, che si interrogano su cosa veda guardandosi allo specchio il teatro del terzo millennio ma lo forniscono altri indicatori, lo spettacolo ha ricevuto ovunque recensioni lusinghiere, il Comunale ha riempito platea e galleria in tutte tre le serate e il pubblico ha riservato agli interpreti applausi calorosi.



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