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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Teatro

Grandiosa, l'Oresteia 2.0 di Terzopoulos

Ad aprire il 77° Ciclo dei Classici al Teatro Olimpico la trilogia tragica di Eschilo riletta da un grande esponente della scena contemporanea internazionale

Pubblicato il 23-09-2024
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Brassaï. L’occhio di Parigi

L’apertura autunnale del 77° Ciclo dei Classici del Teatro Olimpico ha ospitato a Vicenza, in prima nazionale, l’Oresteia firmata da uno dei grandi esponenti della scena contemporanea internazionale: Theodoros Terzopoulos. Fondatore nel 1985 dell’Attis Theatre e alla guida da oltre trent’anni dell’International Committee of Theatre Olympics, Terzopoulos è un maestro nell’interpretazione e nella messinscena del repertorio tragico classico ed è l’ideatore di un metodo sull’arte attoriale riletta in chiave dionisiaca insegnato in tutto il mondo.

Lo spettacolo è stato presentato al pubblico per la prima volta lo scorso luglio ad Atene, all’interno del Festival di Atene ed Epidauro, l’opera commissionata dal Teatro Nazionale della Grecia. Una novità, per il regista, la rappresentazione in un tutt’uno dell’intera trilogia di Eschilo, fatta rivivere in uno spettacolo emozionante, grandioso, della durata di tre ore e mezza senza intervallo del tutto volate e narrato in lingua originale, con sottotitoli. La drammaturgia affidata a Irene Moundraki, Terzopoulos ha firmato regia, adattamento, scenografie, costumi e illuminazione, gran parte della realizzazione per la scena dunque, ma lo spettacolo è apparso da subito oltre che un capolavoro autoriale una creazione del tutto corale. “Il Coro”, del resto, è il tema centrale di questo Ciclo dei Classici riletti nell’ottica della contemporaneità, e mai titolazione fu più riuscita, a giudicare all’apertura.

Oresteia, di Theodoros Terzopoulos (foto Daniel Bertacche)

Una ventina i componenti del Coro e quasi altrettanti gli attori in scena, a far rivivere protagonisti e personaggi dell’opera di Eschilo — unica trilogia del teatro greco tragico arrivata a noi integrale dall’antichità. Nei tre capitoli (Agamennone, Coefore, Eumenidi) parole che erano e sono musica e corpi potenti, sempre in azione, hanno rievocato storie che ruotano attorno a temi immortali e universali, che parlano di violenza primordiale, della relazione umana col potere e di fondamenti di civiltà.

Sul palco dell’Olimpico è stata allestita un’enorme pedana tonda e bianca suddivisa dai diametri a spicchi — presto finirà macchiata di sangue e di simboli d’orrore — macchina teatrale anch’essa come il corpo degli attori, in particolare di quelli costituenti il Coro, per ore impegnati, attraverso un continuo movimento sincopato del ventre dagli effetti sciamanici, a far vibrare le energie più profonde per riuscire a incarnare, in volti rese maschere e in figurazioni sempre nuove, lo stupore e insieme l’automatismo bruto che coesistono nel terrore.
L’incombenza del male è annunciata all’inizio dal ronzio di uno sciamare di vespe. Più tardi scenderanno intorno ombre da notti di luna cattiva e circoleranno ovunque veleni di vipera, narra Eschilo. L’ingresso degli schieramenti del Coro con il coltello alla gola, e poi i volti da Gorgone, le pose marziali, da samurai pronti all’harakiri, parlano già al principio della triplice tragedia di pericolo, di guerre e di assassini, di un tempo di menzogne degli dei. Troia brucia. I troni scottano. E ancora: alti lamenti (bellissime e potenti tutte le voci in scena, anche quando tradotte in emissioni di fiati), brividi di pericolo che muovono le membra come scosse elettriche, danze da anime in fiamme ricoperte da teli insanguinati, i morti che uccidono i vivi, esilio e disprezzo. Tutto guardato a vista da sopra la cavea dal fitto apparato di statue in veste di antichi eroi, come noi spettatori impotenti.

“Cantano” alternandosi i protagonisti del mito: oltre al giovane Oreste (Kostas Kontogeorgopoulos) l’energico, bello e feroce Agamennone (Savvas Stroumpos); una biondo platino, del tutto cinematografica e ardita Clitennestra (Sophia Hill); Egisto (David Malteze), amante elegantissimo e insieme punk, e poi Cassandra, Elettra, Apollo, Pilade, Atena (quest’ultima sull’Areopago nell’assetto da dibattito televisivo di un’alta carica della Corte di giustizia UE) e altri importanti rappresentanti di un mondo magico e del popolo. Ad aprire e a chiudere lo spettacolo, il volto reso magico e antico di Tasos Dimas, una presenza costante in panni multiformi quella dell’attore greco; a un dato momento si accecherà con nastri rossi, di fronte a tante tragedie e all’incontrovertibilità del Fato. Molti personaggi indossano abiti da prima a teatro, o a una sfilata di moda, i vestiti del tutto contemporanei ed eleganti; altri hanno l’aspetto di antichi lottatori. Ci sono molto Oriente e molto oro in scena, del resto si banchetta su cadaveri di corte.
Gli assetti coreografici sono stati ideati per enfatizzare la tensione imperante, una sorta di attesa di parti di serpi, avventi di angeli neri. Alcuni quadri — la scenografia è firmata da Athanasios Foteinias — anche grazie all’apporto suggestivo delle luci e a geometrie create ad arte dalle figure del Coro, sono stati in grado di restituire immagini di una notevole qualità estetica e visionaria.
L’aspetto della sonorità nella rappresentazione ha una cifra importantissima. Dal punto di vista musicale (a cura di Panayiotis Velianitis) a incombere sono stati spesso effetti-suono lenti e ipnotici, e poi tuoni che si associano a tempeste scespiriane — Shakespeare attinse molto dalla tradizione classica. A comparsa, inserti commoventi risuonanti fin nelle viscere di canto-lamento, canto-dolore, canto-nenia.

La poetica di Eschilo è traghettata da un ritmo che viene annunciato a inizio spettacolo e poi riprodotto ad arte in ogni dove: nei momenti marciati, nelle articolazioni da caleidoscopio che si alternano sulla pedana, nel declamare degli attori. A un certo punto anche la poesia piange e arretra, travolta dagli eventi, e saranno spezzate e sparse in scena profumatissime foglie di alloro. Il caos avanza inesorabile e c’è un momento in cui il coro pare quasi produrre in autonomia, a versi distorti che hanno ricordato molto una Salomè delle tempeste da incanto circolata anni fa sempre a Vicenza, un proprio, nero, Ubu Re.
Ma “la città sta bene”, viene affermato prima con qualche nota di ipocrisia, di fronte a tanti disastri, e poi con forza ritrovata, ed è questa la conclusione delle Eumenidi, decretata con votazioni su foglietti rossi che assolveranno Oreste dalla persecuzione e dal rimorso per i suoi peccati in nome di un passo in avanti della civiltà. È l’avvento della democrazia.
In teatro, il mondo nuovo è annunciato però da news sui bollettini finanziari in caduta libera e da esplosioni da bombardieri in quota.

Quella di Terzopoulos una lettura fedele e affratellata all’antico dell’opera, ma architettata per condurre a osservare meglio — circondati da assoluta brutalità e assoluta bellezza, da sempre umane e divine insieme — e aiutati da prospettive rese quasi cosmiche, gli scenari turbolenti della contemporaneità.
Magnifici gli interpreti, magistrale il coro. Standing ovation, all’Olimpico, in entrambe le serate dello spettacolo e lunghi applausi per l’artefice di questa Oresteia 2.0.

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