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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Magazine

Festa grande, all'Ama Music Festival, per CCCP e Marlene Kuntz

Venerdì 12 luglio, settemila presenze e grande energia firmata qui e ora, per i concerti-anniversario degli storici gruppi italiani

Pubblicato il 13-07-2024
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Brassaï. L’occhio di Parigi

L’anteprima di Ama Music Festival ha ufficialmente preso il via ieri, venerdì 12 luglio, con un duplice concerto che ha visto protagonisti due gruppi storici della musica italiana.
Settemila presenze per questo debutto della manifestazione che anima il parco di Ca’ Cornaro. Il programma ha visto cancellato il primo appuntamento in programma il 5 luglio con i Queens of the Stone Age, ma nello stesso fine settimana ha proposto in due giornate la prima seguita edizione del Metal Park, festival dedicato alla musica hard rock ed heavy metal, e ieri ha inaugurato l’estate 2024 con l’energia catartica dei Marlene Kuntz e la follia incantatrice, da saturnale, dei CCCP.

CCCP e Marlene Kuntz alla preview dell'Ama Music Festival (foto di Michele Piazza)

Sulla carta una serata da anniversari, quella in cartellone — per fortuna lontani gli osceni palloncini col numero, quelli che piacciono tanto da un po’: trent’anni dalla pubblicazione di Catartica, primo album dei Marlene Kuntz uscito nel 1994 e primo disco dell'allora neonata etichetta discografica Consorzio Produttori Indipendenti; quarant’anni dall’uscita di Ortodossia per i CCCP, tra le band più provocatorie degli anni Ottanta, la loro una storia con nascita e crescita subito adulta votate a una perenne metamorfosi (nati già “immagine”, si direbbe nel mondo delle farfalle).
In questo 2024 i CCCP hanno proposto un ciclo di concerti iniziato a Berlino che ha fatto tappa solo per rima affine a Romano d’Ezzelino, e sono reduci da una mostra ospitata a Reggio Emilia che ne ha celebrato l’assoluta genialità.

I Marlene hanno aperto le danze e la festa che se non fosse scontato diremmo “altro che mesta” puntuali intorno alle 20: un’energica Transudamerica, le chitarre ben ingaggiate in Canzone di domani e poi subito a Fare fuoco su di te. Ed è stato solo l’inizio di un concerto che è corso in avanti pur guardando all’indietro intenso e in accelerata. Nella scaletta, anche incursioni inanellate al repertorio storico, tra Infinità che non fanno dormire e non fanno vegliare e poi, in traversata, ne L’agguato, con “il sole (finalmente, detto dal sottopalco) disteso giù in strada”. In rientro poi nei panorami di Catartica con Lieve, mai “persi in fondo all’immobile” e via ai “complimenti (di tutto il pubblico) per la festa mesta". Le luci buie del giorno sono tornate per qualche istante a illuminare il parco nell’ipnotica e urlata Sonica e poi, cullato, è arrivato “il cuore che domanda che cos’è che manca” di Nuotando nell’aria.

Firmata nel finale M.K. l’ora e poco più di concerto. Cristiano Godano in stato di grazia, come sanno essere solo i belli e bravi rimasti per sempre così nati negli anni Sessanta. Il gruppo pieno di energia ragazzina di quelle che si traducono in corse e tuffi dagli scogli. Davvero potente questo divertirsi sul palco, lontani i gusti nostalgici da amarcord. Con Godano, i componenti della band Riccardo Tesio, Luca Lagash Saporiti, Davide Arneodo e Sergio Carnevale, quest’ultimo alla batteria a sostituire Luca Bergia, storico batterista del gruppo morto un anno fa, al quale è dedicato il tour.

Anche se sembra impossibile poter accogliere in scia qualcos’altro si rimane sottopalco, condannati da una fedeltà per forza alla forma di zapping televisivo di cui non riusciamo a fare a meno, e qualcos’altro arriva, un “elefante nella stanza” da dimensioni e forme indefinibili.
Al dare il la al concerto dei CCCP la voce distopica di Annarella, benemerita raffinata soubrette. Con lei sono entrati in scena — impossibile non utilizzarlo, il lessico del teatro — Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni e l’artista del popolo Danilo Fatur. Altri bravi musicisti si sono alternati ad accompagnare la performance. Sulla sinistra, indovinato tra le attrezzature, una sorta di camerino, casomai il dubbio di essere di fronte “solo” a un concerto fosse potuto per qualche attimo restare nell’aria.
“No, non ora, non qui, in questa pingue immane frana”: a recitare queste parole è una voce salmodiante che arriva dal palco eppure sì, proprio ora e proprio qui — perché il tempo passa al presente — ci predisponiamo con la mente vuota all’ascolto-visione. Pare proprio questo l’assetto migliore da assumere, perché subito si viene sommersi e inglobati da un caos per niente primigenio di elementi contrastanti per loro stessa natura: toni da vespro al tramonto — non fosse qualunque sole già tramontato — alternati a parole dure e forti, cattive con la kappa (obbedienza, disciplina, fortezza). Intorno, cartelli dichiaranti a specchio “tutti esauriti” e inviti a dare una mano a incendiare una provincia padana non-luogo, che qui diventa in traduzione il miraggio del nord-est.
Giovanni Lindo Ferretti — non ce la si fa proprio a chiamarlo solo per cognome — le mani in tasca, gli occhi infossati e neri, parla incantatore a/di chi mente. La posta in palio inaspettatamente vitale, ci si trova a interpretare giochi di ruolo che stanno a metà “tra anarchia e anticristo”, tra colpi allo stato da mano destra e da mano sinistra e poi di che estremità mai si starà parlando, viene da domandare, se “prima era troppo presto, adesso sembra troppo tardi, ma questo è il nostro tempo in balia delle onde”: un tempo di fedeltà/infedeltà, di Mishima e Majakovskij insieme e di linea a terra del tutto vincente in odierne, pallide battaglie aeree governate da antenne 5G. Una linea che c’è e poi non c’è, come quella dell’omino di vecchi cartoni animati.

Si snoda presto qualcosa di delirante e insieme di perfettamente lucido, tagliente e affilato nelle parole e nella musica, o meglio nelle musiche che accompagnano i testi. Perché che la galassia musicale del gruppo atterri da quarant’anni lontano proprio non si può credere. Nei suoi orizzonti alieni, che nascono e tramontano di continuo per più di due ore: nenie orientali e mazurke guerriere, atmosfere punk berlinesi (ma si canterà anche il no future di Kebabträume) ritmi magnetici che invitano a pogare e vocette da Elio e le Storie Tese, chitarre rock da U2 e passi liturgici da messa in latino, accompagnamenti di cover che diventano immediatamente qualcos’altro (Bang Bang, prima di Spara Jurij) e brani storici diventati cover sanremesi (Amandoti, verso il gran finale), onde profumate di reggae e annunci da Radio Kabul…
Intanto, i figuranti in scena, mai fermi e narratori anch’essi i surreali Annarella e Fatur, interpretano Stati di agitazione in libertà poco vigilata e poi canti da avemaria combattente in Madre; fa la sua apparizione una sorta di rosario sciamanico “non temerai i terrori della notte non temerai il terrore” che si segue con sorpresa dondolando e poco dopo tutti gli uomini intorno urlano in coro forte: Oh! Battagliero!. Dalla porta accanto, quasi a cappella, escono le bellissime parole d’amore di Annarella.
Anche immagini fermate in un passato recente, “Panda no bamba”, la bandiera rossa del Pci, “Pravda parola-verità”, vengono inglobate nel tutto e redivive contribuiscono a comporre testi modernissimi, in vero profetici.

Ci si domanda, ormai notte, se il profetico nasca prima o dopo gli elettrochoc mimati che impone questo gruppo di quasi settantenni, grandi che giocano col fuoco come sanno fare solo i bambini. Curami, del resto, è un inno da sempre fatto nostro.
Ci si chiede anche, subito dopo, come la gente che segue concerti e spettacoli si possa accontentare di qualcosa di meno, visto che questo c’è stato e ancora c’è: sarà solo “una questione di qualità”?

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