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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Cinema

Modalità lettura 3 - n.16

La nostra rubrica in questo numero vola al cinema e legge Anselm, opera di Wim Wenders dedicata a Anselm Kiefer

Pubblicato il 05-05-2024
Visto 4.480 volte

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Brassaï. L’occhio di Parigi

In questo numero, la nostra rubrica Modalità lettura riprende l’assetto “modalità visione” dedicandosi al grande schermo. Protagonista è un documentario appena uscito nelle sale (visto in versione 3D al Metropolis) firmato da Wim Wenders dedicato all’artista Anselm Kiefer, famigliarmente titolato: Anselm. Das Rauschen der zeit (il rumorio del tempo).
L’opera-documento presenta al grande pubblico, anche di non addetti ai lavori (i più fortunati, destinatari di nuove epifanie) uno dei maggiori artisti della contemporaneità e insieme, giocoforza, il suo narratore.

da Anselm, di Wim Wenders

A emergere naturale, fin dai primi minuti, è una sorta di affratellarsi dello sguardo tra Kiefer e Wenders: artista-regista e regista-artista, spalla a spalla, avanzano senza fretta nella narrazione con un andare sinfonico, i loro passi ritmati dalle parole come pietre di Paul Celan (tra le altre, in una registrazione il poeta recita i versi di Wolfsbohne) e poi di Joseph Beuys; si va in un mondo interpretato ad arte tra eco greche cantate da Hölderlin e filmati di repertorio che inseguono il silenzio cupo di Heidegger; intorno e dentro, le musiche di Leonard Küßner e soprattutto le carrellate di bellissime immagini, inquadrature sempre in movimento, leggere ma danzanti in un’aria di piombo.
Tedeschi, coetanei (nati nel 1945, una sorta di anno zero), da sempre e per sempre visionari, artefici di stili creativi originali apprezzati in tutto il mondo ma molto europei, attraverso i quali traducono un’incessante ricerca sull’uomo e sul tempo, il regista che ha reso omaggio e il protagonista del documentario sembrano interfacciarsi più che attraverso degli obbiettivi da feritoie in teatri di macerie.
L’elemento della “consanguineità” si rivelerà anche nei titoli di coda, nel cast degli interpreti: Kiefer bambino che legge e disegna ha il volto di Anton Wenders, nipote del regista; il figlio di Kiefer, Damien, indossa i panni del giovane Anselm.

Le opere di Kiefer sono grandi protagoniste, enormi protagoniste, della narrazione. Nel loro essere "gigantesse", nella pretesa dello spazio occupato, la rappresentazione e insieme l’idea di sconfiggere l’andare altrove del tempo.
Gli incubi della Germania nazista, l’ipocrisia con cui la società tedesca (e europea) ha rimosso colpe inenarrabili, acqua e fuoco resi elementi dilavanti dagli uomini sono sempre stati al centro dell’opera di Kiefer, insieme all’amore per il mito. Sull’altare della sua arte ci sono i libri, la biblioteca e gli archivi di alchemici libri d’artista, i libri non-libri di piombo. Kiefer ha sempre affermato che i libri rappresentano più di metà della sua opera, e a questo proposito, ha spiegato: «Sono convinto che abbiamo un accesso ai nostri libri che non passa per l’intelletto, che transita altrove rispetto al cervello».
Wenders, che ha diretto e prodotto questo nuovo lavoro, ha seguito per oltre due anni Kiefer, dalla Germania — dove l’artista operò agli inizi, in una ex fabbrica nell’Odenwald in cui si producevano pezze per la levigazione di pavimenti in legno con accanto una vecchia fornace — fino in Francia, dove lo spettatore è condotto in visita alla tenuta “La Ribaute”, a Barjac. Quest’ultima è stata ricavata in un ex allevamento di bachi da seta circondato da ettari di verde; un luogo aperto, collegato da una rete di tunnel sotterranei e cripte-catacombe che ospitano installazioni; un’area zeppa di opere monumentali. Lontana l’immagine un po’ francese di soffitte e spazi angusti: Kiefer nei suoi rifugi usa spostarsi in bicicletta.
Si visita poi un ex magazzino logistico della Samaritaine dalle dimensioni faraoniche, nei pressi di Parigi. Anche qui le opere sostano e si spostano come quinte da scenografi su enormi telai e la dimensione umana diventa quella di Pollicino.
Spazi-fucina, non luoghi dove l’artista, fumando il suo inseparabile sigaro, usa come protesi aliene attrezzature da produzione industriale e maneggia con maestria i materiali difficili che predilige (metallo fuso, fuoco, piombo, paglia, piante, tessuti, fotografie, xilografie…). Giorni e notti trascorrono lì, tra sogni di cieli stellati ingabbiati nel cemento, architettando Palazzi Celesti e fissando scorci di abissi neri, inquadrature sul nulla.

Non solo interni, anzi. In più frammenti del film si è immersi in un campo devastato dal passaggio dei carri armati, che coperto dalla neve canta ancora la sua poesia. È abitato da fantasmi di girasoli che sembrano nati neri — nessun giallo che ben conosciamo, soprattutto quello traviato, fatto diventare oro. Sono neri e hanno il capo chino ma riescono a parlare al cielo, i girasoli di Kiefer.
Sempre all’aperto, tra gli alberi e accanto a un fiume, abitano eleganti figure femminili vestite di bianco. Le Frauen indossano abiti settecenteschi del tutto “inamidati”, pietrificati, che abbracciano il terreno. La loro testa non umana le dichiara come esseri mitologici o personaggi realmente esistiti che hanno lasciato un segno nella storia, le “senza volto” sono rese riconoscibili attraverso un concatenarsi di richiami, di simboli ricreati.
C’è poi Venezia, donna anch’essa ma in nero, dalle fattezze lugubri, Kiefer vi appare con un mantello in tinta. I dipinti alle pareti di Palazzo Ducale proiettati nell’immaginario dell’artista tedesco e del suo narratore assumono connotati di disfacimento, di dissoluzione; sembrano ammettere, immersi in una sorta di laguna siderale, la loro precarietà.
A riportare nel mondo degli orologi c’è uno schermo Grundig, a cui Wenders fa sbobinare stralci di interviste, spezzoni documentari, filmati delle mostre; i materiali di repertorio in alcuni punti-chiave sono inseriti dal regista utilizzando sovraimpressioni elaborate.

Guardando al prodotto nella sua totalità: si vive la gran parte della novantina di minuti di durata della proiezione in una dimensione di coinvolgimento. Dimenticati gli occhialini, sono i rumori, i fruscii, le voci ad amplificare il canto da sirena del film.
Il linguaggio del cinema si mette a servizio per rendere omaggio all’opera di un grande artista vivente con i mezzi che ha e che può, e dove non ne ha di adeguati mette in campo il fattore umano: Wenders oltre al lavoro creativo della messa in scena regala anche lo sguardo bambino dell’ammiratore. Il regista contribuisce a restituire sul grande schermo un ritratto a tutto tondo di Anselm Kiefer: fa risaltare l’uomo, con le sue passioni e le sue idiosincrasie, e un’originale visione più che onirica del tutto esistenzialista e post-traumatica del mondo — nel senso nobile di traghettata non da chi il trauma l’ha vissuto direttamente, ma da chi degli errori di padri non suoi e non importa si fa figlio naturale.

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