Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Libri

Modalità lettura 3 - n.10

La recensione di Stagno, della scrittrice dall'animo irlandese Claire-Louise Bennett

Pubblicato il 17-03-2024
Visto 5.096 volte

Si va in immersione in Stagno (Bompiani 2019, 160 pagine, 15 euro) libro d’esordio di Claire-Louise Bennett, scrittrice britannica che vive in Irlanda, perché altro modo non c’è di procedere se non la modalità dell’abbandono allo sciabordio della sua prosa, ben tradotta in Italiano da Tommaso Pincio.
“Girovagare” è un’altra parola che viene in mente andando fra le pagine di questa autrice. Pond è stato selezionato dal "The New York Times" tra i migliori libri del 2022. In seguito è stato tradotto e pubblicato Checkout 19 (Cassa 19, Bompiani 2023), suo secondo "romanzo".

cottage irlandese

In copertina, a tutta pagina, si affaccia l’angolo di uno dei bellissimi giardini segreti dell’artista olandese Margriet Smulders, ad anticipare in macro il viaggio che si farà leggendo pagina per pagina il libro, a cominciare dal racconto dell’allestimento di una colazione accompagnata dalla musica di Ravel che accoglie nel secondo capitolo, dove Bennett cala già le carte migliori: da lì, o la si segue o non se ne fa niente. Non ne faranno niente lettrici e lettori da scaffali self-help, appare chiaro.
Diverse recensioni uscite pongono l’accento sull’aspetto della solitudine, se non della vocazione alla “singletudine” della narratrice, e su questioni di lana caprina su cosa sia “vita o non vita”, dimostrando di essere rimasti a leggere dietro pareti filtranti e anche un po’ infeltrite. Qui c’è la messa in scena non priva di scorci da dietro le quinte su elementi architettonici o da cantiere di un mondo ben popolato e sempre ben presente, anche troppo, un mondo che si sceglie, animato dal pensiero e dal congegno della scrittura.
L’interlocutore è una sorta di io-tu onnipresente e l’acqua è ben ossigenata in questo stagno frutto di un prosciugamento, dove i rivoli di fluidi, che arrivano con la pioggia o piccole inondazioni, si fanno entrare, a seconda, con cordialità o su parola d’ordine.
Protagonista, o meglio narratrice in Stagno è una giovane donna senza nome, che abita da sola in un cottage in Irlanda. «… ricordo di essermi improvvisamente sentita cupa, per non dire gotica, nonostante il motivo floreale della mia nuova camicetta»: è questo il primo ritratto di donna che fa intravvedere, e che si affaccerà illuminato da altre direttrici in molti quadri a venire nella galleria. Prima si era entrati per qualche istante nella vita di una bambina amante della natura e degli animali dichiarante nei fatti di non avere l’attitudine della coltivatrice né della zoofila — le piacerebbe far sfrigolare in padella il didietro di un gatto che aveva azzoppato un povero scricciolo. La bambina cresciuta fa capire che ha abbandonato la vita precedente e un dottorato appena poche righe dopo, parlando di una conferenza traumatica e delle sue ricerche tra i libri di parole che dicessero la forza distruttiva, brutale, dell’amore.
A proposito di uomini e delle ebbrezze amorose, questa Alice nel paese delle Meraviglie che legge Saffo e Roland Barthes e che ascolta Nick Cave torna coi piedi per terra: «… di rado mi entusiasmo per il sesso opposto, se non sono ubriaca».

Quasi niente è posto in forma dichiarativa nel libro, tutto è vestito da fiore e frutto da acquitrino, o di palude — non a caso Bennett farà infuriare la sua narratrice con la padrona di casa quando questa apporrà la scritta “stagno” in un cartello nei pressi dello stagno (qui sì, come nel racconto delle mail erotiche, se si volesse suggerire un emendamento, diventa dichiarativa).
Mascherare così è necessario, se ci piace aggirarci tra gli stagni che amiamo e pratichiamo senza timore, quelli poco profondi: «Ma un giorno ci ho portato qualcosa, un oggetto prezioso di cui volevo sbarazzarmi di fretta perché si era rotto, l’ho gettato in acqua ma non è affondato e ha continuato a non affondare. Si era come piantato lì in piena vista, orribile», e la ragione sale a galla qualche passo più in là: «Non ho il coraggio di assumermi il rischio. Rischiare di voltarmi del tutto e trovarmi davanti qualcosa di molto ordinario. Non lo sopporterei, perciò rimango storta». Se non è coraggio questo, l’ardire di una robusta piantina verde che sceglie di impallidire alla luce della luna…
La prosa con cui procede il racconto — o meglio i racconti, perché spesso la narrazione avanza in apparenza slegata — e che anima il giardino segreto della narratrice, un non luogo inquadrato in un caleidoscopio dove tutto vive, è squisita e ben sorvegliata. Vi si incontreranno: arazzi giapponesi come melanzane ammuffite; cacciatori di topi e bagni chimici; penne dall’inchiostro verde e lettere d’amore finite in discarica; tempeste shakespeariane, grissini, forbicine per unghie e ottomane.

Molti definirebbero Bennett una scrittrice reticente, per le divagazioni e per la forma che ha scelto nella sua opera, dove si privilegia l’onestà di una mitologia personale.
Le descrizioni, bellissime, seguono il respiro della poesia. A fronte dell’osservazione curiosa e lenticolare delle cose, le persone diventano quasi elementi. Nessun naturalismo di stampo ambientalista alla guida, conviene precisarlo; viene piuttosto da cercare, per affinità, una poesia con versi come questi di Marianne Moore:
Non c’è cigno/ dal cupo cieco sguardo obliquo/ e dalle gambe di gondoliere/ bello quanto il cigno di porcellana/ dalle pupille nocciola e dall’aureo collare dentato/ che ne attesta l’appartenenza.
E infine poca importanza hanno anche i fatti, resta solo l’impressione che hanno generato, laddove si possa tradurla con esattezza in parole.
Un racconto nel racconto è contenuto nel lungo capitolo intitolato “Manopole di regolazione”, dove libro nel libro la narratrice si identifica nel personaggio di un diario che dice di aver letto che parla dell’ultima donna rimasta sulla Terra, e così facendo passa in rassegna la propria poetica, che scaturisce da una spinta torrenziale, dal ribollire di un’immaginazione sfrenata. Le immagini sembrano nascere su una sorta di altalena dove si alternano un’illuminazione da sala chirurgica, quando non fasci da lampade stroboscopiche, a lucore crepuscolare.
Proprio un’altalena conclude il flusso che anima il giardino della Bennett nel non-finale di questo libro, dove compaiono una voce di madre, un fratello bambino, mele rosse e verdi, una lumaca lanciata in aria e un foglio di carta bianca, dove un’immaginazione sterminata che sovrasta, che spaventa, può finalmente diventare domestica.

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