Laura VicenziLaura Vicenzi
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Una recensione di La sottile linea bianca, che racconta la vita del leader dei Motörhead

Pubblicato il 07-03-2021
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La sottile linea bianca (Baldini+Castoldi Editore, 2019, 351 pagine, 17 euro) racconta la vita di Lemmy-Ian Fraser Kilmister, leader dei Motörhead.
Scritta con la giornalista Janiss Garza, questa autobiografia corre come un convoglio dell’alta velocità e attraversa cinquant’anni di storia musicale e di mondo del rock europeo, americano e poi mondiale. Procede seguendo un ordine cronologico ma si snoda in ampie digressioni, come una chiacchierata in un pub di quelle che danno spazio anche alle esagerazioni, votate soprattutto al divertimento. Tanti gli aneddoti e le confidenze del tutto aperte che non fanno sconti prima di tutto al suo protagonista, regalate con generosità e senza peli sulla lingua da questo cantante-musicista diventato icona, alle spalle un gruppo i cui membri si sono succeduti nei decenni. Dell’icona fanno parte alcuni orpelli e un bagaglio di cliché rinforzati dal tempo e dalla leggenda, alcuni peraltro ribaditi per iscritto dallo stesso Lemmy, che viene dipinto da alcuni come un machista omofobo, che si veste con simboli nazisti, che fa di ogni eccesso la sua bandiera. In realtà, un uomo che si preoccupa a pie’ sospinto e a ogni dove di affermare che gli piacciono, eccome, le donne, qualche dubbio sulle sue curiosità anche latenti lo fa venire; qui più che di conquiste e di tacche sul muro si parla tanto di accoppiamenti gioiosi pre e post concerto che fanno del tutto parte del pacchetto, e di scambio di fidanzate o mogli che Lemmy definisce quasi incesti, prassi molto gradita all’epoca. Il libro, intanto, è dedicato a una donna. Ma si racconta anche di band tutte al femminile ammirate o aiutate e sostenute con affetto e costanza dal fondatore dei Motörhead. Sempre guardando agli eccessi, in particolare all’abuso di anfetamine e alcool ed eccetera, il libro non contiene alcun mea culpa, ma bisogna pensare che gli anni della gioventù, della lunga gavetta e poi del primo successo della band erano vissuti dai ragazzi d’allora con un’ingenuità e una mancanza di informazione disarmanti. Chi ha fatto il proprio apprendistato, anche sessuale, in anni in cui il miraggio era vivere on the road e ha conosciuto quella sorta di spensieratezza priva di remore e di sensi di colpa, fatica a piantare dei paletti entro cui arginare comportamenti e convinzioni. Distinguere il mito all’interno di una mitologia del racconto non è semplice, ma la narrazione di Lemmy sembra sempre onesta, brutalmente sincera anche quando parla di altri artisti e di noti personaggi del mondo musicale, e degli affari maldestri che orbitavano intorno. Se qualche giudizio tagliente, o qualche frase affermata con troppo colore infastidisce il lettore, nell’arrotondamento si può dire che si è grati di questa immersione dal respiro tanto ampio in panorami musicali che grondano sudore e fascino e altro tutto insieme, e di cui di solito assaporiamo solo frutti preordinati al fornitore, già tutti ben incerati in cassetta.
Oltre all’amore per la musica, dalla lettura di questa autobiografia sgorga l'amore forte per un mondo e per le persone quasi tutte a loro modo speciali che lo abitano, o meglio lo abitavano. Sono moltissimi i nomi noti, star del firmamento musicale e dello spettacolo, che fanno la loro apparizione tra le pagine, con un susseguirsi di dietro le quinte incalzante, dall’andamento del tutto spassionato e spesso spassoso.

Lemmy, leader dei Motörhead

A guardare le fotografie inserite nel libro, si coglie che la cifra del suo protagonista, con la sua maschera diventato un’istituzione, un uomo molto amato dai suoi colleghi oltre che dai fan del metal e del rock, è l’autoironia, insieme a una vocazione diventata religione per il divertimento coniugata indissolubilmente a una professionalità che è naturale purtroppo definire d’altri tempi, anche questa davvero estrema. A leggerlo tutto, sembra di avere incrociato un treno in corsa, e incontrato una persona buona.

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