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Laura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it
Primo piano
Modalità lettura 1 - n.20
Una recensione di un romanzo straniante di Henry Green, dal titolo Partenza in gruppo
Pubblicato il 06-09-2020
Visto 1.116 volte
Partenza in gruppo, di Henry Green (Adelphi, 2006, 227 pagine, 18 euro, traduzione di Carlo Bay) è un romanzo straniante, dove non solo le coordinate spazio-tempo vacillano, ma con i suoi protagonisti anche il lettore finisce subito letteralmente immerso nella nebbia che ammanta la città fantasma dove si muovono.
“Si muovono” è un termine improprio rispetto agli eventi, anche se l’ambientazione parla di una stazione importante del centro di Londra nessuno parte in realtà: i treni sono bloccati perché la visibilità è ridotta al lumicino e i convenuti per la “partenza di gruppo”, insieme a tutto il resto delle figure grigie, distorte, che si muovono loro attorno, finiscono per rimanere rinchiusi da griglie d’acciaio all’interno dei locali anonimi che con assoluta indifferenza li hanno accolti. Un senso di anonimato che mette in allerta e la sensazione di perdere qualche treno di quelli importanti sono condizioni che accompagnano chi legge già dalle prime pagine, nonostante tutti i personaggi principali facciano in fretta la loro apparizione e le presentazioni. Si avverte inoltre il presagio di un disastro incombente, con Green a disseminare pare in modo incongruo rispetto allo svolgimento del racconto immagini che evocano paludi, gigli dal profumo di decomposizione, ragazzi morti in malo modo, asfittici boschi di bambù in cui si è destinati a perdersi inesorabilmente: una sorta di vedute di quelle da patibolo. La folla che si accalca all’esterno della stazione ha tutta l’aria di una folla di zombie; nientemeno, fa la sua comparsa anche Nerone a guardare Roma che brucia.
A fronte di questa inquietudine che mai si affievolisce e che si muove nell’aria, a frasi come folgori improvvise che affermano “siamo tutti morti”; alla presenza di un piccione quello sì morto davvero raccolto, lavato, abbandonato e poi portato con sé in un cartoccio dalla signorina May Fellowes (una “vecchia” cinquantunenne, zia di una delle ragazze della combriccola di ricchi ospite di un certo fascinoso Max, che si prefiggeva senza tanta convinzione una partenza). La signorina Fellewes, che ha legato non si sa perché le sue sorti a quelle dello sfortunato volatile, si sente male e quasi arde di consunzione appena dopo avere bevuto un whisky.
Fatti e dialoghi che si dipanano tra le pagine impaludano ancora di più, non portano da nessuna parte. È il cicaleggio di persone abbienti fatto di cose e nomi e farcito di pettegolezzi; sottobanco, agiscono imperterriti e in fondo idioti i meccanismi dei giochi di potere — le donne per assurdo sempre in prima linea. Tra di loro — si alternano in passerella Julia, la diva Amabel, Angela, Evelyn, che si shakerano nella memoria senza distinzione, se non perché affacciate a vari piani nel loro castello fatto di carte da baro — si “muovono” come pedine il suddetto Max, bellissimo rampollo entrato precocemente nelle grazie di signore ben più grandi di lui (un debutto ideale in certe società) e poi Alex, Robin e un uomo-apparizione soprannominato Richard (Dick) il Console, che ha avuto l’ardire di tessere uno scherzo di cui si discute dall’inizio a fine romanzo come l’unica cosa rilevante di cui parlare. Ci sono altre comparse interessanti, in questo quadro sbilenco degli Anni Venti di un secolo fa scritto nel 1939 (un momento ansiogeno, tragico), tra le altre due Tate che sembrano un personaggio collettivo da teatro greco. La presenza della servitù in apparenza non fa da chiaroscuro ad argomentazioni socio-politiche sulle ingiustizie di classe, uomini e donne quasi ricalcano le sorti dei padroni, ma è appunto il gioco di specchi orchestrato da Green a fare risaltare le traiettorie e ad esplicitarle. Poi è la folla, di cui quasi si sentono la pressione, il calore febbrile, l’urlo, ad amplificare lo stare fuori dal mondo della bella comitiva. Uomini e donne che ne fanno parte si detestano vicendevolmente ma fanno un tutt’uno, gente che non può che partire in gruppo, come un mostro a più teste con i piedi ancorati a un piedistallo, o così o niente. Green (è uno pseudonimo) è stato uno scrittore molto amato dagli scrittori, è stato detto che appartiene alla «vena pazza» della letteratura inglese. In questo libro ci presenta dei mediocri che dimenticheremo, ma l’architettura di quella stazione da cui non si parte se non per destinazioni da apocalisse è destinata a restare impressa a lungo nei pensieri.
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