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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Primo piano

Interviste

A tu per tu con Fabio Stassi

L’autore, nella serata inaugurale del Piccolo Festival, ha raccontato con generosità il suo nuovo libro, L’ultimo ballo di Charlot. Il romanzo è nella cinquina del premio Campiello 2013

Pubblicato il 21-06-2013
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Brassaï. L’occhio di Parigi

La tua passione per i personaggi letterari è nota (Stassi è autore anche di Holden, Lolita, Živago e gli altri. Piccola enciclopedia dei personaggi letterari 1946-1999). L’idea di raccontare Charlot-Charles Chaplin come è nata?

Giacomo Debenedetti, un critico che ho amato molto, i personaggi letterari li chiamava personaggio-uomo. Il personaggio-uomo è più vero che se fosse realmente esistito perché contiene tutto e tutto di lui ci appartiene. È specchio, ombra e ritratto. Ma deve questa sua forza all’invenzione che lo anima e lo dilata. Io amo le maschere universali, nelle quali chiunque ci si può riconoscere. Chaplin, creando la maschera di Charlot, aveva estratto da sé una verità intima che valeva per tutti. Io ho cercato di completare questa sua trasformazione sovrapponendo un’ulteriore finzione e invertendo il processo. Ho capovolto lo specchio: volevo che la maschera tornasse nell’uomo, e che tutto, in quest’altra finzione che definiamo romanzo, ritrovasse un’integrità, una sua coerenza. Non so spiegarlo per bene, volevo restituirgli il dorso e il lato mancino delle cose, dargli una voce piena sia della vita che aveva vissuto sia di quella che aveva inventato. Ma per fare questo, dove inventare a mia volta.

Fabio Stassi sul palco del Piccolo Festival


Nel libro si intrecciano due storie: quella di Chaplin e quella dell’invenzione del cinema. È affidato a un grande artista il compito di narrare la nascita della settima arte.

Il tema di fondo, forse quello che lega un po’ tutto quanto, è il mito di Orfeo. Orfeo è l’artista, e al tempo stesso è il migrante, il desterrado, come Chaplin. È l’uomo che vorrebbe tornare alla casa dell’infanzia o al primo amore. Ma questo è impossibile. Ho nutrito per anni un grande rancore verso Orfeo. Non capivo perché si era voltato all’ultimo, proprio quando aveva quasi tratto in salvo Euridice. Ma ora la spiegazione che mi do è questa: quel patto con gli dei era un inganno adolescenziale, infantile, un’educazione alla perdita, al dolore e al tradimento. Orfeo si volta consapevolmente e voltandosi inventa il cinema. Capisce che nessuno può tornare dal regno delle ombre. La Morte non si può sconfiggere, il Tempo non si può riavvolgere. Ma quello sguardo, quella visione, è l’unico risarcimento, l’unico indennizzo che gli uomini si possono prendere. Quello sguardo effimero è lo stesso di Arléquin chino sulla sua scatola dei sogni. Per questo, solo un artista poteva inventare il cinema.

L’espediente del dialogo con la morte è praticato in letteratura: utilizzandolo, cosa ti sei proposto di raccontare in più negli “interno notte”, nel ballo tra Chaplin vecchio e la Vecchia Signora?

È un espediente anche molto cinematografico. Il riferimento più diretto è la famosa partita a scacchi di Bergman. Ma per Chaplin, che è un ballerino, ho pensato a una danza, a una pantomima. Mi interessava cercare di scoprire se anche la Morte aveva un lato mancino. E il suo lato mancino è stata questa sua capacità di ridere, di giocare, di fare battute, questa sua sorprendente umanità, come se fosse stanca ormai dei suoi abiti e potesse finalmente in compagnia del più grande attore del mondo lasciarsi andare. Fino a rivelare una natura capace di commuoversi.

La scena degli incontri sul treno è un racconto nel racconto: tutti i passeggeri mentono, e alla fine svelano il loro inganno tranne Chaplin. Come mai proprio a lui, l'attore e il creatore di storie, fai scegliere proprio lì di non indossare maschere?

Il treno è un luogo che amo molto. È il luogo nel quale passo la maggior parte delle mie giornate, essendo un pendolare su una linea lenta e difficile. Ho imparato che i treni sono luoghi dai quali transita quotidianamente molta umanità, un po’ come negli ospedali. Le parole in treno hanno più valore, si è portati ad ascoltare. Si percepisce come una solidarietà che favorisce i rapporti. Nel suo viaggio, Chaplin è solo l’uomo che raccoglie questa umanità, se ne cura, si prende cura semplicemente ascoltando le storie. È una scatola vuota, ma attenta, sensibile. Si accorge, e questo glielo insegnano i suoi compagni di viaggio, con molta malinconia, che soltanto là sopra si può essere veri, non servono maschere. Ecco perché tutti alla fine rivelano la loro impostura. Perché lì non ce n’è bisogno, ci si può mostrare finalmente per quello che si è. È una cosa rara, un piccolo regalo che gli concede la vita.

Le donne nel libro (la madre, Alice, Viola, Eszter la cavallerizza… ) assumono sempre dei ruoli molto particolari, segnano delle tappe nel girovagare del Vagabondo. Nella realtà le donne di Chaplin quali ruoli hanno occupato?

Le donne, per me, sono anche i personaggi che introducono il destino, le mani attraverso cui il destino si compie. Fu davvero una chiromante a pronosticare a Chaplin la sua fortuna. Ma soprattutto fu sua madre, con la sua malattia, a determinare tutta la sua storia. Chaplin esordì in teatro a cinque anni per soccorrere lei, che aveva dimenticato le parole di una canzone. È la vergogna il motore principale della sua vicenda umana. Credo che le donne rappresentarono poi per lui una specie di Euridice, il ritorno all’infanzia che Chaplin non aveva avuto. Ebbe con loro dei rapporti molto difficili e complessi, ma la sua ultima moglie, Oona, alla fine lo amò davvero molto.

Oltre al set, nella vita di Chaplin compaiono l’ambiente del pugilato, quello del circo, una tipografia… (Chaplin era un lettore appassionato, si apprende dalla sua autobiografia). Quale scenario, anche tra quelli inediti, credi che lo rappresenti meglio?

Penso che alla fine il circo sia il suo scenario ideale. Non so se Charlie era un uomo albero o un uomo pesce, come li classificava l’impresario ungherese Yitzakh Gabor (personaggio di fantasia). Di sicuro, era un grandissimo mimo, nato come lui nel terriccio rosso e polveroso di un circo, apparteneva a quell’illusionismo, a un tendone disseminato di stelle fosforescenti…

L’America raccontata nel libro è un luogo “capace di ogni gesto, dal più altruista al più vile”. Questo grande precario-immigrato ha avuto in dono il grande successo ma ha lottato molto per ottenerlo, e ha anche ben ricambiato.

L’America, dico sempre, è una parola che contiene grandi promesse e grandi dolori. Lo sanno tutti i migranti. Lo fu anche per Chaplin. Fu l’occasione della sua vita, il Nuovo Mondo dove ricominciare, eppure, alla fine, gli diede un’amarezza enorme. Quella stessa terra, molti anni dopo, lo avrebbe espulso in maniera offensiva, vigliacca e antilibertaria. Ma Chaplin le aveva regalato già il cinema. In lui, il destino e il talento sono una cosa sola. Ma non c’è solo il talento, c’è anche la fatica. Fu aiutato sia dalla sfortuna che dalla fortuna: lui mise tutto al suo servizio. Se ha un senso la sua storia, è anche quello di ricordarci che niente si raggiunge senza sforzo e senza dolore, soprattutto la gioia.

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